L’inno al coraggio della Turandot di Ricci Forte

L’inno al coraggio della Turandot di Ricci Forte

 

 

di Emanuela Sabbatini

 

QUANDO IL SENTIMENTO SI FA POLITICO

Recensione del 29 luglio. Allo Sferisterio di Macerata, ultima data domenica 13 agosto

MACERATA – Che si fossero già misurati con una regia lirica non è un segreto. Che fossero in grado di provocare qualche prurito di troppo soprattutto negli integralisti del teatro di tradizione men che meno.

Quando tra i nomi in cartellone per la stagione lirica dello Sferisterio Opera Festival di Macerata si intercetta quello del duo più irriverente (sarà vero?) del teatro contemporaneo internazionale, Ricci-Forte, allora le reazioni possono essere solo due. O irrefrenabile curiosità, o paura che può sfociare nella riflessione o, banalmente, nel rifiuto. Sì, persino paura, perché è un teatro scomodo il loro, e che punta il dito verso chi guarda come in quel frammento dello straordinario “Grimmless” nel quale, lo spettatore seduto in platea, è invitato a tradire il suo ruolo, alzarsi e trasformarsi in principe azzurro per soccorrere la principessa violata e supplichevole di aiuto. Eppure non lo fa. E attaccato alla poltrona viene pervaso da un misto di sentimenti: paura, sadismo, frustrazione, consapevolezza dei propri limiti, fossero anche semplicemente quelli di non riuscire a distinguere tra realtà e finzione scenica. Ecco, il teatro di Ricci-Forte è molto più che psicologico, irriverente, contemporaneo. È come un felino: quando si pensa di averlo messo in cattività rivela nuovamente la libertà che lo connota in un gesto impensato.

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E allora la Turandot non è più solo di Puccini, ma è la loro Turandot. E con questa consapevolezza poco serve inorridirsi se rispetti alla lettera oppure no quella originale. Non so se importi ancora la linearità di ripetere, seppur con qualche variante di stile, l’ennesima volta la storia inviolabile di un grande autore. Chiedersi se è questo il senso, la reiterazione, o piuttosto se non sia, invece, il coglierne l’essenza operistica e leggerla con quello che si è oggi. “Siamo nani sulle spalle dei giganti”, dice l’adagio. E su quelle spalle Ricci-Forte ci salgono per guardare oltre.

La loro Turandot è una storia d’oriente e di “Occidentali’s Karma” per dirla con Gabbani. Non l’oriente necessariamente estremo della Cina fatta di abiti tradizionali. È l’oriente quello Medio e quello russo. È l’oriente del cuore, quello che ci rende tutti un po’ alieni quando abbiamo paura di lasciarci andare, di tradire convenzioni e regole, di superare le paure di bambino e librarci nel mondo adulto.

Obbedendo alle “norme” non scritte del teatro contemporaneo, quando si accede all’arena Sferisterio lo spettacolo è già iniziato. Il concerto esime l’orchestra che ancora deve accogliere il suo direttore. Il suono che pervade lo spazio è quello del ghiaccio che si sgretola. Siamo catapultati in una scena surreale. Della Cina non v’è nulla se non la serialità degli abiti (seppur in una ipercolorazione quasi alla Tim Burton) che rimanda alla Repubblica Popolare. Strutture come fossero enormi cubi di ghiaccio dove dentro è congelata la vita di piante sempreverdi, curate come curato è il popolo (non a caso in abiti verdi), coro di questa opera. Turandot è una figura inizialmente muta che attraversa la scena e la ghiaccia. Il suo essere glaciale è sia habitat naturale che posa del suo agire. Turandot è colei che cavalca l’enorme orso polare che è sulla scena, simbolo del potere e esemplificazione della glacialità che la muove nel mondo. Impossibile non pensare ad un Putin donna mentre attraversa il palcoscenico a cavallo dell’orso bianco.

Turandot è dominatrice in quanto dispensatrice di morte. Ma è anche dominata dai sentimenti che prova e che nella scena prendono forma di uomini in tuta blu da lavoro. Una trovata davvero geniale quella di Ricci Forte che, utilizzando queste figure in blu, riescono ad assolvere a due funzioni. Da una parte quella di avere a disposizione veri e propri operai di scena che muovono le strutture e ne modificano la posizione. Dall’altra essi sono personificazione visiva di sentimenti ed emozioni. Così si dispongono ai lati dei personaggi in scena e li tirano in forze opposte tali da provocarne immobilità sentimento preponderante quando ci si trova vittime dei giochi crudeli della Turandot. Sono sinapsi di un cervello pensante, quando a torso nudo, si muovono quasi fossero ingranaggi alle spalle del principe tartaro spodestato Calaf, che uno ad uno scioglie gli indovinelli di Turandot e ne frantuma la glacialità.

Tutto il mondo interiore e dei desideri dei protagonisti della scena è visivo. Quando “i ministri del boia” Ping, Pong e Pang lamentano il proprio vivere e sognano di poter lasciare la capitale e trasferirsi nelle tenute di campagna, lontano da esecuzioni e crudeltà, il loro desiderio si fa visivo in atmosfere clownistiche e circensi, bolle di sapone si librano in aria e aleggia un lontano rimando a quei Lucky e Pozzo di Aspettando Godot.

La politica sembra fare capolino nell’opera in scelte dalla forte carica simbolica. Ricci Forte ci costringono a pensare all’Oriente di oggi. All’esecuzione capitale del Principe di Persia che nell’opera originaria non aveva sciolto gli indovinelli della Turandot, corrisponde nella traduzione di Ricci Forte una scena da You Tube. Al Principe si sostituiscono i Pueri Cantores, bambini bendati e posti in ginocchio sul proscenio. Una esecuzione di massa con armi da fuoco, come per i ragazzi del Bataklan e una postura che ricorda invece la decapitazione dei cristiani copti in riva al mare.

L’oriente mistico visto con gli occhi dell’Occidentali’s Karma, detentore di verità e ricette preconfezionate di pace e serenità interiore, si trasforma in quello del medio oriente in subbuglio, fatto di poteri occulti agli occhi del popolo, di paura, d’incapacità di comprendersi e di cum prendere, di glaciazione di sentimenti e dialogo.

E la scena finale di una Turandot che abbatte i propri timori e si abbandona all’amore è una sfilata sul red carpet con flash che scattano foto all’amore consacrato nel bacio appassionato con Calaf. Ma non solo.

I cartelli che si girano verso il pubblico compongo una frase che apre ai molteplici piani di lettura di questa opera. “Chi ha paura muore ogni giorno”, e viene in mente Paolo Borsellino. Un inno al coraggio dei sentimenti e a quello dell’età adulta per rimanere ancorati all’opera originale. Una strada politica da percorrere per parlare di oriente oggi. Questo e tutto quello che ognuno può vederci è la Turandot di Ricci Forte.

Orchestra magistralmente diretta dal M° Pier Giorgio Morandi. Splendida la Turandot di France Dariz che sostituiva un’infortunata Iréne Theorin. Maestria che porta il nome di Marta Bevilacqua per i movimenti scenici, vera e propria danza.

Macerata, Sferisterio, 29 luglio

 

 

 

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