“Sangue di provincia”, il nuovo album degli Amelie Tritesse raccontato da Manuel Graziani

“Sangue di provincia”, il nuovo album degli Amelie Tritesse raccontato da Manuel Graziani

Vengono da Teramo, suonano insieme da oltre dieci anni, hanno appena pubblicato il nuovo album Sangue di provincia e nell’epoca balorda che stiamo vivendo c’è un gran bisogno di storie raccontate con la loro devozione e la loro sincerità. Quello degli Amelie Tritesse (Manuel Graziani : voce, basso, batteria; Paolo Marini: chitarra, voce, tastiera; Stefano Di Gregorio: batteria, basso; Cristiano Pizzuti: basso, synth) è un read’n’rock di periferia che sa guardare ad una dimensione spazio-temporale lontana (due dei nuovi brani, per esempio, sono ispirati alle opere degli scrittori italo-americani Pascal D’Angelo e Pietro Di Donato) e muoversi con autorevolezza in territori di frontiera (umana, non geografica), fotografando senza filtri le aberranti aspirazioni e le grandiose miserie che abitano ogni bar di paese. Abbiamo rivolto alcune domande a Manuel Graziani che, con il piglio del narratore – iperrealista, crudo, ma anche sottilmente ironico – è autore e voce narrante dei dieci racconti di vita vissuta e osservata che compongono Sangue di provincia.

 

 

Gli Amelie Tritesse esistono da oltre dieci anni, che bilancio si può fare del vostro percorso?

E sì, il primo concerto è dell’estate 2007. Abbiamo avuto delle pause perché in questo lasso di tempo ci sono nati dei figli (a me e a Stefano) ma non abbiamo mai pensato di mollare. Questa longevità, se così si può chiamare, è dovuta al fatto che prima di tutto siamo amici. Ci divertiamo a stare insieme, che si suoni o meno. Ci siamo trovati molto bene con Interno 4 Records/NdA di Rimini che ci ha pubblicato nel 2011 il cd-libro Cazzo ne sapete voi del rock and roll. La critica ci ha accolti bene, sono uscite molte recensioni, più di quante mi aspettassi, alcune davvero positive. Abbiamo avuto l’opportunità di girare un po’ in Italia e suonare dal vivo condividendo palchi e palchetti con gente che stimiamo come Thurston Moore dei Sonic Youth, Diaframma, Offlaga Disco Pax, Emidio Clementi, Digos Goat, I Cani, Inutili, Pete Bentham… direi che il bilancio è piuttosto positivo.

Non è semplice oggi trovare proposte così fedeli e coerenti alla propria poetica, così lontane da ciò che è mainstream, orgogliosamente dure e senza fronzoli. Quanto conta la coerenza nel vostro patto artistico?

Coerenza a oltranza, come cantano gli ultras del Teramo (la nostra città). Al di là delle battute… noi suoniamo perché innanzitutto siamo famelici ascoltatori di musica. E la musica che ci fa battere il cuore non è esattamente commerciale. Avendo qualche anno sulle spalle, sappiamo cosa vogliamo fare e come (provare a) farlo, tendiamo a togliere piuttosto che a caricare i pezzi: parlo sia sotto il profilo musicale che dal punto di vista dei testi. Niente (o pochi) orpelli. Il nostro è un approccio minimalista, giochiamo di sottrazione, ma lo facciamo in maniera del tutto naturale.

Come è stato concepito il nuovo disco?

I dieci pezzi dell’album sono nati in sala prove, suonando assieme. Alcuni li suoniamo da un po’ di tempo, anche dal vivo, ad esempio Son of Italy, Cristo fra i muratori, Questa è la città. Altri sono più recenti, vedi Seymandi, Guantoni e Wojtek: in quest’ultima i miei compagni mi hanno permesso di suonare la batteria facendomi davvero felice. Non è un concept, eppure mi piace pensare che un filo rosso, di un rosso scuro, unisca i pezzi. L’album lo abbiamo registrato in presa diretta, un sabato e una domenica, suonando live in stanze diverse, nell’ottimo Noiselab Studio di Sergio Pomante, a Giulianova.

Sembra di scorgere un ghigno beffardo dietro molti dei tuoi testi, penso per esempio a Seymandi o a Uno stratosferico coglione. Che rapporto hai con l’ironia nel processo di scrittura?

Per me l’ironia è fondamentale, ancor di più l’autoironia. Non sei il primo a dirmelo e sono contento che questo aspetto venga colto spesso. Quando scrivo racconti, perché di racconti si tratta, voglio essere il primo a ghignare, anche di me stesso. E quando ciò accade mi accorgo che il testo può funzionare. Non sono un intellettuale e non ho alcuna intenzione ad atteggiarmici. Diffido degli intellettuali, soprattutto da chi si autoproclama tale. Sono d’accordo sul fatto che i due testi da te citati sono pervasi da una certa, beffarda ironia… soprattutto Seymandi che, seppur cantilenante e in apparenza scanzonato, trovo sia il pezzo più “politico” dell’album. Uno stratosferico coglione ha a che fare più col sarcasmo, disinteressandosi del politicamente corretto.

Pietro Di Donato “Cristo fra i murtori”

Son of Italy e Cristo fra i muratori sono ispirate alle opere di due scrittori italo-americani, Pascal D’Angelo e Pietro Di Donato. Due omaggi assolutamente preziosi e necessari, soprattutto oggi. Vuoi dire qualcosa su questi due brani e suoi due libri che li hanno ispirati?

Da appassionato di letteratura, e da abruzzese, sono un estimatore di John Fante. Anni fa, facendo una ricerca sulla letteratura italo-americana, mi sono imbattuto in Pietro Di Donato e nel suo capolavoro Christ in Concrete del 1939: un romanzo proletario, durissimo, di denuncia, molto toccante, che fotografa la condizione disumana dei muratori italiani emigrati nella Grande Mela. Il romanzo non è in catalogo da una vita, ai tempi recuperai la prima edizione Oscar Mondadori del 1973… nel 2014 è stato ristampato, con una nuova traduzione, dalla piccola casa editrice aquilana Textus in una bella edizione. Di Donato è nato e vissuto negli USA, ma da genitori abruzzesi, di Vasto. Il romanzo fu un successo in America, pensa che nel 1949 il regista Edward Dmytryk ne trasse un film per Hollywood. Sulle tracce di Pietro Di Donato ho scoperto Pascal D’Angelo… la sua è una storia ancora più incredibile: nato in provincia di L’Aquila nel 1894, a 16 anni è emigrato in America assieme al padre. Rimasto solo negli States, si è mantenuto svolgendo i lavori più duri e umilianti. Ha imparato l’inglese sui libri, con rara ostinazione. Nel 1924 è stato pubblicato il suo capolavoro Son of Italy, un memoir struggente e bellissimo dove ripercorre la sua vita in Abruzzo e i mille lavori per sbarcare il lunario al di là dell’Oceano. Era più un poeta, un poeta-manovale. Purtroppo morì giovane, povero e solo, ad appena 38 anni. Questi due libri mi hanno colpito molto, mi sono rimasti dentro, così ho deciso di prendere alcuni passi, “trattarli”, adattarli liberamente e creare dei testi. Spero che l’omaggio sincero che abbiamo fatto con gli Amelie venga apprezzato.

Musica e parole trovano un mirabile equilibrio in tutte le tracce. Quando scrivi i testi, hai già in testa come “suoneranno”?

Quello che dici mi fa molto piacere, grazie! Trovo fastidioso chi si mette di fronte ad un microfono a leggere storie con la voce impostata, mentre dietro di lui dei poveri musicisti gli creano un tappeto sonoro buono per qualunque lettura. Il reading puro non mi interessa, a meno che non ti chiam(av)i Remo Remotti. Gli Amelie Tritesse sono un gruppo, noi veniamo dal punk, musica e parole hanno pari dignità, l’una non può prescindere dalle altre e viceversa. Alcuni testi li ho scritti appositamente con l’idea di portarli in sala prove, quindi ho scelto le parole pensando al loro suono, alla loro pronuncia. Altri sono nati come racconti brevi e li ho riadattati facendo anche qui molta attenzione alla musicalità e alla scansione delle parole. C’è da dire che declamare/leggere storie al microfono può fare l’effetto tavola da surf, appiattire la canzone e renderla un filo monocorde. Nel nostro caso, per fortuna, spesso interviene il cantato di Paolo che butta dentro gocce di melodia acidula ed esotica per via dell’inglese.

Ad essere sapientemente amalgamati sono anche i vari brani tra loro. In che misura avete lavorato per dare all’album quest’unità di fondo?

Come ti dicevo Sangue di provincia non è un concept. Tuttavia è vero che i testi hanno un’unità di fondo. A me piace scrivere e raccontare storie minime, con personaggi sospesi che si muovono ai margini. La letteratura ha attinto molto dalla marginalità e su questo ci sarebbe da fare un lungo discorso. Ti dico soltanto che non m’appassiona granché la retorica del loser, non ho la presunzione di narrare l’epopea degli ultimi. Piuttosto raccontare i penultimi, quelli che non s’incula nessuno: l’uomo medio che galleggia nelle bassezze e nelle miserie di tutti i giorni, penso a Pino di Uno stratosferico coglione, a Pendolo e Il Monsignore che compaiono in The Greatest Hit of Joe 21. Musicalmente c’è amalgama perché siamo amici, ci capiamo al volo nonostante i nostri ascolti siano diversificati. E poi Paolo Marini, Stefano Di Gregorio e Cristiano Pizzuti sono musicisti di lungo corso dalla rara sensibilità… mi ci metto anch’io, va’, che suonicchio il basso in un paio d’occasioni e la batteria nel pezzo che chiude l’album, Wojtek, dedicato a Wojtek Dmochowski: il ballerino della band post-punk inglese Blue Aeroplanes.

La cover di “Sangue di provincia”, opera di Rino Rossi

Visto che proponete una musica dalla forte impronta letteraria, puoi dirmi quali sono i tuoi autori di riferimento e i romanzi della tua vita?

Quanto tempo abbiamo? Sarebbero troppi gli scrittori e i libri da citare. Non sono così originale, e non voglio esserlo forzatamente… come molti sono stato folgorato durante l’adolescenza da Il Giovane Holden di Salinger. E come molti poi mi sono perdutamente innamorato di Bukowski e di Carver che ho divorato. Di John Fante ti dicevo prima. Ho seguito e apprezzato i “minimalisti e postminimalisti hemingwayani”, come li chiamava la Pivano, soprattutto Bret Easton Ellis, che poi tanto minimalista non è. Tra gli italiani direi Tondelli, tutto Tondelli, Silvia Ballestra degli inizi, Claudio Piersanti che, peraltro, ha origini teramane… mi piacciono anche il Peppe Lanzetta scrittore, Gaetano Cappelli e Piersandro Pallavicini che trovo di una leggerezza molto arguta ed elegante. Libri della vita non ne ho, sinceramente. Gli ultimi romanzi legati alla musica che mi hanno lasciato un segno sono Mezzanotte a vita di Jerry Stahl, pubblicato 10 anni fa da Leconte e ristampato di recente da Baldini & Castoldi, e Beautiful Music di Michael Zaadorian pubblicato pochi mesi fa da Marcos Y Marcos.

Cosa sta succedendo nella scena teramana, quali fermenti ci sono?

La scena musicale teramana è viva e vegeta. A Teramo e dintorni c’è sempre stata una buona cultura di rock alternativo, un’attenzione particolare verso le musiche altre. Mi riferisco a gruppi, locali che propongono musica dal vivo, organizzatori di concerti. La Goodbye Boozy Records del mio amico Gabriele è una piccola e spettacolare etichetta che produce vinili di garage-punk-r’n’r e che ci invidiano in tutto il mondo. Tra i miei gruppi cittadini preferiti ti dico Inutili, Los Infartos, A Minor Place e Wide Hips 69: andateveli a cercare. Sul versante concerti si muovono bene i ragazzi del Sound (un nuovo locale aperto lo scorso anno) quelli dell’Officina, storico circolo Arci nel centro della città, e quelli dell’associazione MIT – Musica Inedita Teramana.

 

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