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La seconda vita de “Lo spazio sfinito”: intervista a Tommaso Pincio

di | in: in Vetrina, Interviste


Il ritorno in libreria, grazie a Minimum Fax, de “Lo spazio sfinito” è l’occasione per una chiacchierata col suo autore, lo scrittore romano Tommaso Pincio. Secondo romanzo di Pincio, “Lo spazio sfinito” uscì per Fanucci nel 2000 e finì troppo presto fuori catalogo, non prima però di aver influenzato un nutrito numero di scrittori di casa nostra che avevano voglia non più soltanto di lambire ma di abbracciare la letteratura di genere, troppo spesso relegata da noi al rango di letteratura di serie B. Utilizzando protagonisti appartenenti alla mitologia del ventesimo secolo come Jack Kerouac e Marylin Monroe, Pincio è riuscito, con “Lo spazio sfinito”, a scrivere una favola postmoderna ambientata negli anni Cinquanta ma capace di raccontare con struggimento l’alienazione, la solitudine e la disperazione di un mondo senza tempo.


Cosa si prova a rivedere il proprio romanzo in libreria dopo dieci anni?
Un misto di sensazioni. Quella poco piacevole di dieci anni passati come in un sogno si  confonde al conforto che, malgrado il tempo trascorso, il romanzo sia sopravvissuto all’oblio in cui la più parte dei libri pubblicati viene risucchiato. Per questo ho un debito di gratitudine con gli amici di Minimum Fax che hanno accolto con entusiasmo e affetto “Lo spazio sfinito” regalandogli una seconda possibilità.
L’impressione è che il romanzo si riveli attualissimo ad ogni pagina e che sarebbe potuto uscire oggi per la prima volta risultando allo stesso modo freschissimo.
Fosse uscito oggi per la prima volta avrebbe avuto un destino diverso. Ho infatti la sensazione che sia compreso e apprezzato più oggi che allora. Non voglio con ciò dire di avere precorso i tempi. Non nutro particolare simpatie per gli anticipatori e coloro che tali si credono, né considero la preveggenza un punto di merito letterario. Credo piuttosto che l’importanza di uno scrittore si misuri proprio dal modo in cui scava nel suo tempo, senza indossare i panni del profeta. Quando scrissi “Lo spazio sfinito” l’atmosfera che si respirava in Italia era d’altro tipo. Autori statunitensi che oggi vanno per la maggiore erano di fatto sconosciuti, mentre io ero reduce da un lungo soggiorno a New York. Ero imbevuto di cose da noi pressoché ignorate: preferisco spiegarmi la cosa in questi termini.
Quando uscì dieci anni fa invece fece un po’ da apripista all’avantpop di matrice americana. E’ come se da “Lo spazio sfinito” anche gli scrittori italiani si sentissero autorizzati a giocare col postmoderno. Sei d’accordo?
Non sta a me confermarlo. Bisognerebbe porre la domanda agli scrittori che sono venuti dopo. Posso però dire che è forse fuorviante porre l’accento su certi termini. Avantpop è soltanto un’etichetta critica, una parola che offre la possibilità di riunire sotto un cappello comune autori molto diversi tra loro. Un discorso quasi analogo vale per il postmoderno, anche se in quest’ultimo caso ci troviamo davanti a una categoria di portata più vasta.
Quanto c’è di profetico nelle librerie prive di libri de “Lo spazio sfinito”?
Come ho detto, la preveggenza non mi interessa. Si dice spesso che “1984” ha anticipato il nostro mondo, ma non è vero. Orwell ha commesso un gran quantità di errori se lo considera su un piano strettamente profetico. Per esempio, aveva profetizzato che i cartelloni pubblicitari sarebbero scomparsi dopo la guerra. Si tratta però di errori cui non prestiamo attenzione o che giudichiamo irrilevanti perché il suo romanzo parla alle nostre coscienze di oggi con un urgenza che ce lo fa sembrare attuale e dunque in anticipo sui suoi tempi. Ora, mi rendo conto che immaginare librerie senza libri, come ho fatto in quel romanzo, possa essere letto come uno squarcio sul futuro, ma in realtà  è un puro accidente. Non pensavo affatto al destino che attendeva l’industria editoriale; quell’invenzione era funzionale al mondo poetico che volevo ricreare, un mondo fatto di vuoto e artificialità. Che poi la nostra società stia evolvendo verso forme ulteriori di vuoto e artificialità è faccenda diversa o, come ho detto, una coincidenza. D’altra parte, i germi di questa evoluzione erano presenti e ben evidenti già ai tempi in cui scrissi “Lo spazio sfinito”.
Dei personaggi de “Lo spazio sfinito”, apparentemente così eterei, inconsistenti, si riesce quasi con sorpresa, con l’avanzare del racconto, a delineare una precisa personalità e una precisa psicologia.
Li ho pensati come personaggi da favola. Come i personaggi delle favole sembrano fluttuare in un mondo privo di consistenza. In un certo senso, sono anche loro espressione di un vuoto. Hanno l’apparenza di figure di cartapesta, di stereotipi senza anima. Esattamente come accade nelle favole, finiscono però, quasi inaspettatamente, per brillare di vita interiore. E una volta tanto l’apparenza non inganna. Quei personaggi di fatto restano vuoti. A dargli corpo, spessore psicologico, non sono io, ma il lettore che a poco a poco vi proietta i propri sentimenti. La verità è che, alla maniera delle favole, i personaggi de “Lo spazio sfinito” sono archetipi, scatole vuote che hanno però la forma dell’animo umano e sono pertanto adatti ad accoglierne le varie psicologie.


Jack Kerouac visto da Tommaso Pincio

Jack Kerouac visto da Tommaso Pincio


Come mai Jack Kerouac e Marilyn Monroe?
Il modo più pratico per creare un mondo da favola era quello di scegliere quali protagonisti personaggi che il lettore già conoscesse e potesse dunque inserirli all’interno d’un immaginario già dato. Kerouac incarna il prototipo del vagabondo romantico e malinconico. Marilyn è la fanciulla che tutti desiderano ma della quale nessuno è disposto a farsi realmente carico. Mi rendo conto che una simile operazione possa far odorare di postmodernismo. Ma di fatto è un’idea antichissima: i poeti dell’antichità non facevano che attingere a miti noti a tutti. Li rivisitavano alla loro maniera per dargli una vita nuova.
Che importanza attribuisci alla cultura pop?
Non gli attribuisco alcuna speciale importanza. È semplicemente il paesaggio che fa da sfondo alle nostre vite. Negarlo sarebbe come pretendere che nelle nostre strade si vada ancora a cavallo. D’altro canto, non credo nemmeno si debba farne il centro gravitazionale di un’opera. Il pop è stato il fulcro del discorso artistico tra gli anni Sessanta e parte degli Ottanta. Dopodiché la sua grammatica è stata assorbita dal nostro linguaggio, integrandosi alla maniera di immigrato di terza generazione.
In quale ottica si può parlare oggi di letteratura di genere?
Mi piacerebbe dire che i confini tra letteratura di genere e mainstream sono ormai abbattuti, ma non è così. Basta entrare in una libreria e dare un’occhiata al modo in cui sono disposti i titoli per rendersene conto. È però innegabile che le incursioni degli scrittori seri nei bassifondi del genere si sono fatti sempre più frequenti e disinibiti. Resta però una separazione, un sottofondo di diffidenza, tra questi mondi, perlomeno in Italia dove l’idea che la vera cultura debba colorarsi di elitario avanguardismo è dura a morire.
Da grande conoscitore della letteratura d’Oltreoceano, da quali nomi ti aspetti il grande romanzo americano del prossimo decennio?
Come ho detto, non mi piacciono le previsioni. Preferisco godermi la sorpresa.
In quale tipo di vuoto finiscono i libri fuori catalogo?
Non è un vero e proprio vuoto. I libri non muoiono mai. È possibile reperirli nelle biblioteche. Li si può scovare nei negozi dell’usato, su ebay. Trovo istruttivo, oltre che piacevole, andare alla ricerca di un titolo perduto. Non meno importante della conoscenza in sé è la strada che conduce al conoscere. Non è salutare che le cose ci vengano fornite all’istante come in un fast food. Detto questo è ovvio che per un autore non è mai una bella sensazione vedere i propri titoli finire fuori catalogo.
Puoi dire qualcosa sulle tavole collegate con il romanzo, compresa quella che è stata utilizzata per la copertina?
Nasco come pittore. O meglio: la mia ambizione di ragazzo era quella di diventare un pittore. Tutta la mia formazione fu volta a questo scopo, ma una volta terminati gli studi posai i pennelli perché mi convinsi di non avere il talento necessario per raggiungere ciò cui aspiravo. Da quel momento è iniziato un rapporto assai tormentato con le arti figurative. Erano il mio mondo d’origine, per cui le amavo. Ma erano anche l’immagine del mio fallimento, per cui le odiavo. A poco a poco la scrittura ha preso il sopravvento e sono giunto a guardare l’arte con maggiore serenità e rinnovato piacere. Finché non ho ripreso matite e pennelli in mano. Il dipinto usato per la copertina de “Lo spazio sfinito” e i ritratti ispirati al romanzo nascono da questa mia riscoperta della pittura. Il primo passo è tuttavia stato il quadro per la copertina di “Cinacittà”. Al momento sto realizzando una serie di ritratti coi quali spero di riuscire a fare una mostra, prima o poi.




14 Gennaio 2011 alle 18:24 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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