Benvenuto e Buona Navigazione, sono le ore 13:46 di Ven 19 Apr 2024

Bill Callahan “Apocalypse”

di | in: Primo Piano, Recensioni

“Apocalypse” (Drag City, 2011)

Etichetta: Drag City
Brani: Drover / Baby’s Breath / America! / Universal Applicant / Riding For The Feeling / Free’s / One Fine Morning


Questo sant’uomo pubblica dischi immensi da oltre vent’anni. Chi conosce il suo canzoniere sa bene che “Apocalypse” è un disco da avere, senza tante storie. Chi invece è all’oscuro dell’arte di Mr. Smog – Smog è la sigla con cui Bill Callahan ha firmato i suoi dischi dal 1990 al 2005 – potrebbe non trovare in “Apocalypse” il disco giusto per iniziarne la conoscenza. Troppo scarno ed elusivo. Parecchio distante dai colorati “Woke On A Whaleheart” e “Sometimes I Wish We Were An Eagle”, i precedenti album, rispettivamente del 2007 e del 2009, con cui Bill Callahan si è firmato col proprio nome di battesimo. Ma attenzione: non c’è bellezza più preziosa di quella che conosce il modo di nascondersi. Ogni minuto registrato da Bill è parte di un percorso dentro le radici del cuore americano, quello che non si sposa con le luci della ribalta, con la fruibilità immediata e con le menzogne dello showbiz, e sarebbe bene non perderne nessuno. In “Apocalypse” si può notare una sorta di riluttanza a mostrarsi in tutto il suo splendore. Bill predilige arrangiamenti asciutti, melodie nascoste, racconti pensosi, guizzi sempre misurati. Continua a predicare con andamento sfuggente, quasi freddo, rintoccando parole con un rigore che pare scolpito nella pietra, tranne poi, all’improvviso, fulminarti con due versi precisi, appuntiti, con la direzione del tuo cuore. Il bello è che lo splendore del suo comporre e interpretare musica non riesce a nascondersi agli spiriti affini nemmeno sforzandosi di farlo, alla fine lo splendore di quei due versi sussurrati e accompagnati dallo stesso ipnotico accordo ti fanno arrendere ancora una volta. Capita con Drover e Baby’s Breath, le prime due imperdibili tracce, che si piantano come lapidi in qualunque prato sul quale si decida di stendersi per ascoltarle («oh young girl at the wedding/baby’s breath in her hair/a crowning lace above her face/that will last a day/before it turns to hay»). L’amore è la solita vecchia ferita, la giovinezza è un campo malato, la solitudine è bellissima sotto una coltre di fiori senza nettare.
Capita che a trafiggere sia anche America!, un inno avvelenato alla propria patria, sostenuto da un tappeto di chitarre sature e da parole che lasciano odore di sangue rappreso in bocca («what an army/what an air force/what a marines/America!/I never served for my country/America! America!/Afghanistan, Vietnam, Iran, Native American/America!»). Riding For The Feeling è l’apocalisse da camera, ballata di mostruoso languore, ricerca composta di una bellezza che non si nega ai trovatori di stagioni nuove. E’ in canzoni come questa che, a chi non conosce Bill Callahan, apparirà un artista capace di scolpire magie nel legno, un cesellatore di poesia che non ricorre a trucchi ma si affida soltanto alla verità della fatica. Il quadretto bucolico di Free’s e l’apocalisse in aperta campagna di One Fine Morning chiudono l’ennesimo disco immenso. Gli artigiani dell’amore dovranno fare i conti ancora a lungo con queste sei corde e questo baritono. Se gli spazi del continente americano sconfiggono così la claustrofobia, il sentimento fuggevole ha pari dignità degli ultimi brandelli di sole del più sconfitto dei giorni. E se a volte vorremmo essere nient’altro che un’aquila sopra l’apocalisse, qualcuno ci perdonerà.




18 Aprile 2011 alle 19:44 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

Ricerca personalizzata