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Teatro Lauro Rossi: “Zio Vanja” da Cechov a Bellocchio, il classico è contemporaneo

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Teatro Lauro Rossi

Il tris Rubini, Placido, Bellocchio strega il pubblico del Lauro Rossi

 

 

MACERATA – Il classico, in filosofia come in musica o in teatro, può essere la più grande testimonianza di quanto un’opera, proprio per il fatto di essere considerata “classica”, debba necessariamente continuare a dialogare con la contemporaneità.

Prova ne è stato lo spettacolo di apertura della stagione di prosa del Teatro Lauro Rossi che con “Zio Vanja” di Cechov, in scena lo scorso martedì e mercoledì, ha inaugurato l’inverno teatrale maceratese.

Un cast di altissima qualità e, si potrebbe dire, di estrazione cinematografica, benché tutti gli attori provengano dal teatro e lo stesso regista, Marco Bellocchio, abbia già realizzato per il palcoscenico almeno altri quattro lavori.

Nei panni di Zio Vanja, Sergio Rubini, affiancato, nel ruolo del professore in pensione Aleksandr Vladimirovi? Serebrijakov, da Michele Placido. Senza troppo stupore, teatro in sold out due giorni di seguito.

Quando ci affacciamo nella tenuta del Professore, è ancora giorno. Il palco è un odoroso contenitore di naturalità, con le strutture scenografiche, dalle pareti agli arredi, in un legno grezzo, una sorta di rovere sbiancato. La luce sembra filtrare come tra i rami degli alberi e le ombre lunghe si proiettano sulle pareti e sul pavimento. Il giorno e la notte sono passaggi di luci che crescono e si affievoliscono, mentre il buio viene schiarito dalla fiamma di una candela. La sensazione è di essere dentro la natura, di partecipare alla realtà naturale, sia essa per l’uso dei materiali che per la precisione della rappresentazione, così verista in senso verghiano. A ridosso del proscenio un’altalena, stato di sospensione, passaggio tra l’interazione dialogica che avviene sulla scena e l’autoconfessione, il soliloquio che esplode nell’intimità di un luogo nudo, il proscenio.

La parete di fondo palco è una superfice riflettente dove la realtà scenica tende a sdoppiarsi nell’appaiamento dell’ombra che i corpi proiettano, quasi a rivelarci un piano altro, uguale ma complementare, inverso e torbido, che non rivela identità ma presenze ombrose.

All’interno di questo luogo, che tendenzialmente rimarrà immutato nel corso dei quattro atti di cui si compone il testo, si svolge la vicenda di Zio Vanja e della sua famiglia, più o meno allargata.

È qui che scopriamo l’uomo Vanja, un tempo indomito lavoratore pieno di ideali, ubriaco di cultura scolastica e profondo estimatore di suo cognato, il Professore, al quale ha dedicato il suo lavoro e la sua fatica. Ora Vanja è un altro uomo; afflitto da una pigrizia contagiosa, orfano di credo, privo di passato e terrorizzato dal presente. Alla sua vita che si trascina così come il suo incedere fiacco, si correlano le vicende della casa e dei suoi abitanti.

Un professore in pensione, dal passato falsamente altisonante, ormai costretto alla malattia, sposato in seconde nozze con Elena, una donna molto più giovane di lui, di una bellezza che lega a sé ben tre uomini (il Professore, Vanja e Astrov) e che rimanda ai tratti di una Elena di Troia della contemporaneità; un giovane e rampante Dottore, Astrov, ancora intriso di una idealità tanto rabbiosa quanto destinata a sfiorire nell’ebrezza dell’alcol; una vecchia balia, ordine costituito della casa, linea di connessione con quella routine che è condanna allo status quo e alla resa.

Vanja è incarnazione della disperazione che si fa rabbia e poi di nuovo disperazione. Rubini interpreta il personaggio aderendogli profondamente, dal nervosismo che esplicita nel tremolio della gamba, al cinismo sempre presente nelle sue battute, allo humor nero o sarcastico che lo rimanda per alcuni tratti ad una sorta di Eduardo russo.

Cechov parlava della Russia del suo tempo, Bellocchio pare traghettare l’opera ai giorni nostri. L’indolenza e l’assenza di ideali, la notorietà per misurare l’importanza, la decadenza sia della natura, nell’esempio dei boschi, che dei valori, la lezioncina che sempre impartiscono coloro che mai dovrebbero. Mai come oggi Cechov parla all’uomo contemporaneo. Lo zio Vanja, il disilluso, colui che altro non può fare se non “sopportare la disperazione” e a cui il vecchio credo fatto di Dio, abitudine, giustizia, di cui si fa portatrice la Balia, nulla può più fare è un macchietta del presente.

Dai colori degli abiti alle luci, tutto tende all’incupimento. Il rosso carminio del primo atto sfiorisce in un cupo bordeaux o un rosa antico; la luce mattutina con cui si apre lo spettacolo diviene flebile luce di candele quando il sipario si chiude.

La verità immutabile e beffarda si disvela, mentre lo spettatore aspetta che succeda qualcosa e sempre più si accorge che nulla porterà al cambiamento. Nemmeno il tentativo di Vanja di uccidere il professore va a segno. “Non l’ho preso, ho fatto cilecca” grida il personaggio. Vanja non esiste in quanto non può nulla: né uccidere, né andare in galera per aver tentato, né amare Elena, né lasciare la tenuta, né uccidersi e nemmeno, infine, smettere di lavorare per sostenere il professore. Il suo agire non produce effetti e la speranza si piega all’atto più meccanico. Lavorare è occupare il cervello, evitare il pensiero. La routine, lo status quo è abbandono a cui è necessario affidarsi per sopravvivere, per sopportare l’insopportabile e chiamarlo riposo.

Cast di eccezionale bravura, con qualche sbavatura nei ruoli femminili più giovani che a tratti sfociano nell’accademismo. Degna di nota la regia di Bellocchio in grado, pur rimanendo fedele al testo, di renderlo redivivo e di aprire alla psicologia dei personaggi anche attraverso l’uso formale della scena.

Pubblico entusiasta.




16 Novembre 2013 alle 23:02 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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