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“The Suit” di Peter Brook @ Teatro dell’Aquila, Fermo – 3-4 dicembre 2013

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FERMO – Percorrere le strade di una Fermo semideserta, nella fredda serata di mercoledì scorso sospinti da un unico pensiero: “The Suit” di Peter Brook, spettacolo che nella sua versione francese “Le Costume” aveva debuttato in prima assoluta al Théâtre des Bouffes du Nord di Parigi nell’aprile del 2012, viene messo in scena in esclusiva regionale al Teatro dell’Aquila.

A stupire sono almeno due cose. La prima è che un’opera di un Maestro, un vero e proprio pezzo di storia del palcoscenico, autore de “Lo spazio vuoto”, bibbia del teatro contemporaneo, giunga in una città di provincia delle Marche. La seconda è che lo spettacolo, in lingua inglese con  sopratitoli in italiano, sia in abbonamento nella stagione Amat del Teatro dell’Aquila.

Una vera e propria rivoluzione che offre al vasto pubblico degli abbonati di sala un prodotto teatrale che varca i confini nazionali, e ancor più, si scorpora dal detestabile trend dei cartelloni fotocopia privi di direzione artistica e costituiti da compagnie di giro.

Lo spettacolo è tratto dal romanzo dello scrittore sudafricano Can Themba, morto in povertà nel ‘68 mentre i suoi scritti erano banditi, come accadeva a tutti gli autori neri durante l’apartheid.

Il sipario è già aperto quando entriamo in sala e il palco è uno spazio di geometrie colorate dove sedie e appendiabiti tracciano limiti ideali ad ambienti immaginari in cui dentro-fuori e pieno-vuoto sono solo piccole inezie pronte alla peripezia di un capovolgimento repentino.

Al centro del palco, adagiato su una sedia come fosse un uomo seduto, un abito, esattamente quello a cui il titolo si riferisce. Una copertina esplicativa che focalizza già il vero protagonista dello spettacolo.

La trama è presto detta. Nella sudafricana Sophiatown, a pochi chilometri da Johannesburg, una giovane coppia divide la quotidianità matrimoniale. A raccontarcela è il marito, Philemon, narratore in terza persona di se stesso e del suo intorno. Innamorato, perso nei dettagli di una colazione servita a letto amorevolmente alla moglie, Matilda, nella dipartita mattutina per il lavoro, nel ritorno a casa, nella dolcezza di un abbraccio nell’intimità del letto.

La magia di coppia vissuta da Philemon deve però fare i conti con la dura realtà quando il suo amico gli rivela che Matilda ogni mattina accoglie in casa un altro uomo. Philemon stordito da quelle parole, decide di verificare la maldicenza rincasando prima del previsto. Sorprende così la moglie con l’amante che, nella concitazione della fuga, scappa lasciando solo l’abito a testimoniare la sua presenza.

L’assente continuerà ad essere un fantasma della quotidianità, un simbolo interpretabile esclusivamente nella dimensione intima della coppia. Philemon obbliga infatti Matilda a prendersi cura dell’abito come fosse un ospite di riguardo, facendolo sedere a tavola con loro e servendogli del cibo, offrendogli un letto per riposare e portandolo a fare una passeggiata.

Quell’involucro vuoto è esso stesso presenza simbolica che denuncia l’adulterio pur non svelandolo platealmente. Un peso sulla coscienza di Matilda e insieme una barriera invalicabile nella memoria di Philemon.

Se la questione intima ruota attorno alla valenza del simbolo e alla sua capacità di essere punizione per entrambi tenendo incatenata la coppia alla sottigliezza di una violenza sottaciuta, il rumore attorno è invece quello causato da una brutalità molto più conosciuta e manifesta, quella dell’apartheid.

I continui rimandi all’ondata razziale che investe Johannesburg e ai tanti aneddoti che raccontano di uomini di colore torturati, quella Strange Fruit cantata dolorosamente e che dipinge nelle menti uomini appesi ai rami degli alberi come strani frutti: tutto sembra vomitare senza mezzi termini la violenza che si respira nella quotidianità della comunità nera.

Grande spazio nella narrazione è riservata alla musica suonata e cantata dal vivo da un trio in grado di incastrarsi diegeticamente con la storia ed extradiegeticamente facendole da colonna sonora.

Se esteticamente le strutture di scena, impalcature che contornano vuoti, rimescolano il gioco tra pieno e vuoto, tra dentro e fuori, tutto lo spettacolo non fa che ricalcare questa dualità. La musica ora è entità dialogante, parte della messa in scena,  ora è orpello esterno; i personaggi ora agiscono ora narrano se stessi in terza persona. E anche il pubblico risponde allo stesso modo. Chiamato in causa dagli attori nel passaggio ideale di una sigaretta fantasma, o nel semplice racconto del narratore, la platea risponde anche alla musica vivendola come parte integrante dello spettacolo alla stregua di un recitato, o percependola come esibizione a sé stante e applaudendo al termine del brano.

La mano del grande maestro si vede tutta in alcune trovate estremamente poetiche e significative come quell’amoreggiare di Matilda con l’abito, che, quasi fosse un amante in carne ed ossa, si fa voce suadente attraverso il suono della tromba e la invita alla cintura stretta di un ballo lento.

Altrettanto esplicita si fa la competenza di Brook se si guarda alla confezione completa del suo spettacolo, con attori di altissimo livello e di una versatilità sorprendente divisi tra ballo, mimica, canto, drammaticità e ironia.

Quello che pare mancare a tratti è però la profondità del testo che delude non poco nella scelta telefonata del tragico finale. Il perdono giunge troppo tardi e Matilda non può goderne abbandonandosi alla morte. Forse ci saremmo aspettati qualcosa di più simbolico e meno “didattico”, aprendo il testo alla molteplicità di letture che l’hanno attraversato per tutta l’ora e mezza e che sono venute a mancare nel finale.

Teatro pieno e applausi convinti.




7 Dicembre 2013 alle 15:48 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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