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“Il mio sublime è la miseria”: intervista a Paolo Benvegnù

di | in: in Vetrina, Interviste

Paolo Benvegnù (foto di Mauro Talamonti)

di Pierluigi Lucadei

 

Ultimo approdo di una ricerca musicale, concettuale ed esistenziale mai doma, “Earth Hotel” è un disco suddiviso in stanze, in ognuna delle quali abita un personaggio o una lacerazione, un amore o una distanza, il mondo visto con la fatica del sensibilista. Non è un disco facile, occorre pazienza per farsi largo in una scrittura densa come mai prima d’ora e una certa dose di coraggio per fronteggiare il lato peggiore di noi stessi, svelato in brani come “Nuovosonettomaoista”, “Divisionisti” e “Piccola pornografia urbana” in una sorta di seduta analitica liberatoria e collettiva. Paolo Benvegnù arriva ad “Earth Hotel” a tre anni e mezzo di distanza dal precedente “Hermann” e a dieci anni da quel “Piccoli fragilissimi film” che, una volta chiusa l’esperienza con gli Scisma, ne lanciò la carriera solista nel segno del miglior rock d’autore. Non possiamo non incontrarlo, per parlare del disco d’accordo, ma soprattutto per fare filosofia nel modo in cui sanno farla solo i poeti ubriachi.

 

Per uno che ogni volta che fa un disco sembra che scavi nel profondo tanto da riuscire a dire tutto quello che ha da dire, un nuovo disco somiglia a un miracolo. Dove trovi ogni volta la forza di scavare ancora più a fondo?

In tutta sincerità non lo so. Questa volta sono proprio andato sull’inconscio, verso le mostruosità. Adesso posso dire che è venuta fuori una cosa fin troppo graziosa rispetto a ciò che ho sentito mentre scrivevo. Sono andato verso l’inconscio, perché rispetto al conscio pensavo di aver detto tutto quello che dovevo dire. E alcune cose credo di averle dette proprio bene. Stavolta ho cercato disperatamente di disinnescare il fattore umano a cui ero ancora legato. Mi sono dato il compito di andare verso il vuoto. Alla fine è venuto fuori questo disco, che paradossalmente non suona poi tanto diverso dalle cose che ho fatto prima. Questo da un lato conforta la mia identità, dall’altro, dal punto di vista del ricercatore, anzi della studentessa di storia in sovrappeso, come io mi definisco (ride, ndr), mi conforta meno. Ho una gran voglia di ricercare, anche perché questo è un bel periodo. I periodi di così grossa crisi regalano tanti scenari da poter scegliere.

Quando ti ho conosciuto, a Firenze nel 2004, avevi appena pubblicato il tuo primo album solista e ti stavi costruendo una nuova identità artistica. Sono passati due lustri, hai cambiato diverse città, e hai pubblicato altri tre album. Pensando a questi dieci anni, sono stati gli album a scandire la tua vita oppure la tua vita, con i suoi cambiamenti, a scaturire le canzoni dei dischi?

E’ la vita ed è l’essere umano che vengono prima, decisamente. Io sono una persona con gravi mancanze. Quando dico persona, è già una mancanza, perché persona vuol dire maschera. Sono un essere vivente con delle grandi mancanze, sono molto malato, per cui ho bisogno di scrivere canzoni. Le canzoni sono un effetto del mio essere in vita, tenacemente. Nonostante io creda sempre meno nell’umanità, credo molto nella vita. Dici che mi stanno influenzando negativamente le letture che sto facendo ultimamente? Se uno legge Cioran, Ceronetti, Manganelli….

Possiamo dire che “Earth Hotel” è il tuo album solista più vicino alle cose degli Scisma?

Direi di sì. Per “Earth Hotel” mi sono dato delle difficoltà, un po’ come me le davo ai tempi degli Scisma. Allora, la difficoltà stava nel criptare il messaggio, non perché volessi effettivamente criptarlo, ma semplicemente perché avevo timore di renderlo palese. Stavolta mi sono dato delle difficoltà musicali. L’idea era trovare un limite altro, non componendo con la chitarra, né con il pianoforte, ma in maniera astrusa. La cosa bella è che, un po’ come ai tempi degli Scisma, non ho scritto. Ho soltanto registrato dritto i provini con quello che mi veniva fuori. Il lavoro sull’inconscio è stato questo: non scrivere nulla, non mirare a niente, vedere cosa succedeva. E il disco è venuto fuori così, con una sequenzialità elementare.

Col passare del tempo sei diventato molto meno cantabile, lo sai?

Forse sì, le canzoni sono più complicate.

E’ un modo di mettere distanza tra te e chi ascolta? O tra te e le tue stesse canzoni, tra te e il tuo inconscio?

No, la complessità viene dalla vita. Nel momento in cui perdi l’innocenza del gatto, hai una realtà più complessa da affrontare, anche se il vero grande tentativo è tornare al gatto (ride, ndr.). Il mio tentativo non è mai stato quello di diventare un superuomo. Anzi, vorrei essere occupato in altre cose, forse semplicemente nel riuscire a vivere questa vita con maggior respiro. Devo dire, però, che ultimamente mi sembra di riuscirci. Non sono più in rincorsa, sono fermo e contemplo.

"Earth Hotel" (Woodworm/Audioglobe)

“Earth Hotel” (Woodworm/Audioglobe)

Anche il maggior utilizzo dell’inglese rientra in questa forma di distacco e complessità?

L’uso dell’inglese è un po’ un paradosso. L’idea era quella di utilizzare la lingua del colonizzato e quella del colonizzante. “Earth Hotel” è un disco sì di soggettiva, ma anche di scenari, e mi piaceva che gli scenari fossero rappresentati proprio con la lingua del colonizzante.
Una stanza dell’Earth Hotel è occupata da Stefan Zweig. Come mai?

Il perché è “Novella degli scacchi”, grande affresco del Novecento e dell’esplorazione dell’uomo verso se stesso e verso l’altro. In più, cosa che mi piace molto, Stefan Zweig incarna nella sua biografia il vero Novecento, ovvero un uomo che lascia il suo Paese per via delle leggi razziali e decide di farla finita insieme a sua moglie a quindicimila chilometri di distanza perché non riesce a tollerare una diversità così ampia rispetto alla sua radice. Praticamente, la stessa cosa che fa il suo carnefice, la stessa cosa che fa Hitler. Quindi, al di là del discorso prettamente letterario, di ciò che ho letto e di ciò che ho sentito specialmente in “Novella degli scacchi”, ma anche in alcuni brani di “Notte fantastica”, è proprio questo paradosso a colpirmi: nella mostruosità e nel sublime siamo uguali.

Come mai, invece, hai inserito la voce dello psicoanalista Jacques Lacan alla fine del brano “Piccola pornografia urbana”?

Sono le letture che ho fatto in questi ultimi anni, anche perché consigliato in tal senso. Quanto è consolante Lacan quando dice che l’uomo è il suo linguaggio! Adoro l’essere meravigliosamente sardonico di Lacan mentre cerca di dare delle risposte all’impossibile. Lo stesso discorso vale per Proust, o per Sartre ancora di più. Quanto è consolante che delle menti così straordinarie vogliano dare un senso a ciò che è insensato! Ecco perché, passando da Minkowski, passando da Jaspers, passando da Lacan e passando anche da Freud, alla fine sono arrivato a Cioran e Ceronetti, che sono il mio doppio in questo momento. Nella prosa ritrovo certe cose in Céline. E’ come se Céline, scrivendo, dicesse “sono un animale pensante spregevole, anche magico alle volte, ma sempre nello spregevole”. Il mio sublime è la miseria. Non dovremmo guardarci un pochettino di più in questo modo nel riflesso narcisistico?




18 Dicembre 2014 alle 16:27 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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