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Grandi Operai del Jazz

di | in: Primo Piano

JACK WALRATH & GARY SMULYAN QUARTET

JACK WALRATH & GARY SMULYAN QUARTET al CottonJazzClub di Ascoli  
C=Lounge  / 6 marzo 2015  h 21,45 (circa)
      A guardarli all’opera da vicino mi ricordano quei temerari ma tranquilli operai che costruivano grattacieli a Boston – Chicago – N.Y. negli anni ’30: l’arcinota e abusata foto in B/N (ma si dice sia un primordiale fotomontaggio) con loro seduti in fila sul braccio di una gru a cento e più metri d’altezza, a “riposarsi” in bilico, sicuri e apparentemente felici. Operai-Artisti. Sotto di loro il vuoto, ma anche il Jazz.
Certo, questi di stasera sono dei signori operai. Non vestono tute e caschi, non maneggiano chiavi inglesi, cazzuole e martelli. Ma non hanno neanche luccichii da palcoscenico, vezzi da star, arie da maestri. Non posano. Anzi, sono praticamente mimetici, si confondono col pubblico, bevono birra. Semplicemente “lavorano” jazz sublime. Con “arnesi” normali, quasi da mercatino dell’usato: la tromba color argento (non d’argento) essenziale e senza preziosità di Jack Walrath, il temibile sax baritono super opaco con plurimi bozzi da viaggio di Gary Smulyan, l’imponente contrabbasso dal legno vissuto rigato e scheggiato di Ray Drummond; la batteria VOLUME di Billy Drummond (pare il fratello di Ray) dall’aspetto nuova di zecca invece la conosciamo: forse è la solita del Cotton, a noleggio. (Niente piano, non se ne sentirà la mancanza). Vestono scuro, ma non per inutile eleganza, ci sono partiti dall’America.
      Spartiti volanti scritti a mano (poche note, sembrano piuttosto tracce): Jack Walrath li mette un po’ in ordine dietro di me su un tavolinetto, come un mite ragioniere che spulcia le fatture dei fornitori. Non si cura della tromba, non deve accordarla, che aspetti in piedi sul palco. Ma ecco che, quasi con timidezza, sotto il cielo di tubi di rame scuri dell’ex birrodotto, Gary raccoglie il suo sax, Ray rizza il contrabbasso (e ne copia le forme abbondanti…) e Billy si infila agile “nella” VOLUME come un Hamilton nell’abitacolo della Mercedes F1: La “costruzione” del jazz che aspettavamo inizia. Fuori, un tempo turbolento da New Orleans, tanti ascolani si son chiusi in casa…
      Iniziano come se niente fosse, come incontratisi per caso. Morbidi tappeti di note a trama molto fitta (tipo Nain), in solitudine o insieme, a turno. Bisbigli di assaggio, come di “saluto”, o per vedere l’effetto che fa, per provare l’aria, i metalli, le corde, le pelli, la gente. Senza dichiarati “motivi conduttori” ovvio, si va a sprazzi cromatici, a tuffi profondi liberatori quando il sassofono si ricorda d’essere un baritono. Non riconosci niente e tutto, eppure senti continui brividi: sono gli spiriti, i colori, le atmosfere dei Grandi con cui questi hanno condiviso e vissuto il Jazz. La “Vecchia Scuola”, che non c’è più, ma che ha fruttato la “testimonianza” di rari musicisti-operai che la ripropongono, rispettandola e trasformandola.
      Tromba e sax (più in evidenza si capisce, ma sempre capaci di eclissarsi) che colloquiano sovrapponendosi con garbo, mai alzando la voce, mai interrompendosi: palleggio vivo gustoso e paziente da fondo campo, con qualche volée, come sui campi verdi d’antan quando il candido tennis non aveva ancora il colore dei soldi. Contrabbasso e batteria partecipano o intervengono d’improvviso, con altrettanta inventiva ed eleganza. Quattro veri amici al bar. Che “parlano” – immagino – di cose utili o leggere, e di arte, poesia, viaggi, misteri… certo non di calcio.  (…)   Le facce, gli occhi (di Ray), i guizzi (senza agilità, ahi ahi), i riposi, i silenzi. Quelle rade note “fuori campo”, come per dire sì, no, però, oh yes, okkei… Quei suoni complicati ma freschi, quelle mezze note immense. Sto vicinissimo, di due sento anche i respiri: non pensavo che il respiro “percepito” fosse tanto importante. “Anema e Core”: alla fine chissà perchè la fanno, minimalista all’avvio, un caro merletto d’Offida dopo.
      A guardarli capisci che stanno in un altro tempo, in un altro mondo, già nella storia: forse non sanno di essere “Grandi Operai del Jazz”. Certo noi abbiamo assistito ad una Grande Costruzione di Jazz. Che poteva durare ancora il tempo di uno-due bis, se una parte della platea non si fosse alzata troppo presto. Peccato. Eh, quando il tempo a New Orleans si fa turbolento, c’è chi non resiste all’ansia di ri-chiudersi dentro casa…
       9 marzo 2015                     PGC 



11 Marzo 2015 alle 15:33 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |
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