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Elvis Perkins “I Aubade”

di | in: Primo Piano, Recensioni

Etichetta: MIR

Brani: On Rotation Moses / My Kind / I Came For Fire / & Eveline / It’s Now Or Never Loves / The Passage Of The Black Gene / AM / Hogus Pogus / Gasolina / Accidental Tourist (A White Huayno Melody) / All Today / My 2$ / Wheel In The Morning

 

 

Una voce che arriva da lontano, un sussurro misterioso e inquietante, una chitarra malinconica e polverosa, rumori di fondo inscatolati come beni preziosi: Elvis Perkins, con il terzo album “I Aubade”, racconta tredici storie dalla distanza siderale della solitudine, riuscendo a trasmettere il senso del precario e del tragico che da sempre ne accompagna la parabola esistenziale. La sua storia parla da sola: figlio di Anthony Perkins, il Norman Bates di “Psycho”, vinto dall’AIDS nel ’92, e della fotografa Berry Berenson, morta su uno degli aerei schiantatisi sul World Trade Center l’11 settembre, Elvis Perkins ha familiarizzato presto con il dolore. Chi si innamorò del suo disco d’esordio del 2007, “Ash Wednesday”, sa bene come il cantautore americano suoni e canti con un’intensità rara persino nel ricco panorama di folksinger dediti allo struggimento che, da Leonard Cohen in poi, hanno preso a spuntare come funghi di là dell’Oceano.

Il nuovo “I Aubade”, registrato per la gran parte in solitaria in un appartamento newyorkese, è un album diverso dai precedenti. Pubblicato per l’etichetta di Perkins, la MIR, è un lavoro che cattura l’attimo dell’esecuzione solitaria, che porta con sé la morbosità e l’atmosfera ovattata di una camera buia con un letto disfatto e un ventilatore arrugginito. Occorre silenzio, dedizione, tempo e pazienza per apprezzarlo. Ci si sente un po’ voyeur ad entrarci dentro, ma Perkins ha ormai imparato a frapporre il giusto spazio tra sé e l’angoscia, fra la musica e il pianto, e alla fine di “I Aubade” si esce in qualche modo rinfrancati. Se anche queste canzoni stringono come cappi al collo, lo fanno con una melodia che lenisce e ammalia. Tra fruscii e carillon, tra un Cohen bruciato (I Came For Fire), un Lennon a rallentatore (It’s Now Or Never Loves) e un Devendra Banhart invecchiato di dieci anni (My Kind), “I Aubade” regala brividi ed emozioni come solo il folk più autentico riesce a fare.

 




12 Luglio 2015 alle 13:59 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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