David Foster Wallace e Mark Costello “Il rap spiegato ai bianchi”

David Foster Wallace e Mark Costello “Il rap spiegato ai bianchi”

E’ stato appena ristampato, con una nuova prefazione di Mark Costello, il saggio sulla musica rap scritto nel 1989 dal compianto David Foster Wallace e dal suo coinquilino ai tempi di Harvard.

 

Quando scrisse, a quattro mani con Mark Costello, “Il rap spiegato ai bianchi”, David Foster Wallace non era ancora un autore-mito ma aveva già pubblicato due titoli – il romanzo “La scopa del sistema” e la raccolta di racconti “La ragazza dai capelli strani” – che l’avevano segnalato come uno degli scrittori più geniali della sua generazione. Soltanto un lustro più tardi avrebbe tirato su quel sontuoso monumento all’ambizione artistica che è “Infinite Jest”, ma la sua cifra stilistica nel 1989 era già perfettamente riconoscibile.

In tal senso, “Il rap spiegato ai bianchi” non è soltanto un testo prezioso per i completisti dell’opera di Wallace, ma soprattutto la testimonianza di una fase cruciale nella carriera dello scrittore di Ithaca, che lo vide alle prese, tra le altre cose, con una bizzarra forma di critica musicale, esagerata, divagante e postmoderna. Più che due critici militanti prestati alla musica nera della Sugarhill Gang e di Grandmaster Flash, infatti, Wallace e Costello, che all’epoca della scrittura di questo libro condividevano un appartamento a Boston, sembrano due intellettuali che non hanno paura di fare la figura degli ingenui mentre approcciano una materia calda e di pertinenza nera, giocando agli intrusi con sorpresa e divertimento. Per apprezzare le 230 pagine del libro bisogna dimenticarsi non solo i dettami del bravo giornalista musicale ma anche le derive di alcuni irregolari che hanno provato a forzare le regole della carta stampata con una visione psichedelica gonza irriverente caustica dell’alfabeto rock’n’roll. Se l’intento di Wallace e Costello era quello di rifarsi all’anarchica prosa rock di Lester Bangs a cui “Il rap spiegato ai bianchi” è dedicato, il risultato non è dei migliori. L’arte della digressione wallaciana complica i codici della critica musicale in un modo troppo sofisticato (o troppo idiota) per chi non è abituato a frequentare le sue pagine (o per chi non ammette altro che competenza ossessiva ed enciclopedica quando si parla di musica). Chi, al contrario, ha letto, almeno in parte, “Infinite Jest”, apprezzerà facilmente ne “Il rap spiegato ai bianchi” il talento smagliante del suo autore che, nel 1989, viveva una strampalata imbarcata per un genere musicale spesso considerato rozzo, volgare, criminoso; ed evidentemente moriva dalla voglia di spiegare il segreto di quell’universo alieno ai lettori bianchi, arrivando persino a ipotizzare – in realtà è Costello a farlo – che nientemeno che Bob Dylan “potrebbe essere il padre non riconosciuto dei Public Enemy, perché, quando Lyndon B. Johnson era l’anticristo ed Ed Koch un giovane riformista affamato, lui era lì a rappare”.

 

Al netto di quella patina di piacevole nostalgia che la lettura de “Il rap spiegato ai bianchi” regala ad un’epoca, la fine degli ’80, musicalmente non proprio memorabile, è stimolante leggere Wallace e Costello che provano a raccontare una scena in continua evoluzione, dove ciò che è cool oggi sarà cooptato dall’industria domani, mentre dal fuoco vivo dell’underground nuovi nomi si preparano a sfondare. E il passaggio di consegne non avviene mai senza un inasprimento del messaggio e un innalzamento della posta in gioco. “Le nuove band usurpatrici possiedono un grado esponenzialmente maggiore di asprezza, durezza e cattiveria rispetto ai loro precursori”, scrive Wallace, “il lessico e i temi delle canzoni scavalcano di netto i confini di ciò che solo un anno prima sarebbe stato ritenuto improponibile per la messa in onda”.

Eppure i rapper riottosi che vedono nel giro di pochi mesi il proprio conto in banca gonfiarsi di zeri, non si fanno scrupoli a godersi il successo e addirittura a celebrarlo. C’è in questo aspetto – che differenzia il rap dal rock – una contraddizione, a ben vedere, soltanto apparente, se è vero che gli artisti neri del South Side o del South Bronx “nei loro pezzi non hanno fatto altro che parlare del diritto alla ricchezza e alla fama, dell’inevitabile ricompensa che spetta alla loro voce gagliarda e inimitabile”.

Con il senno di poi, nonostante le lotte intestine, nonostante i morti, nonostante chi ha guardato il fenomeno dal di fuori abbia continuato a trovare strano che le rime militanti anti-sistema dei Public Enemy fossero distribuite dalla CBS, parte del segreto della vitalità del rap e della sua forza propulsiva, che ne fa ancora oggi un genere con una sorprendente presa sulle nuove generazioni, sta proprio in questo esagerata monumentale spudoratezza.

 

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