Con il suo nuovo romanzo, Nicola Lagioia corre il rischio di avvicinarsi alla peggiore cronaca nera dei nostri anni, dimostrando di avere il talento necessario per trasformare la tragedia in grande letteratura. “La ferocia” è il romanzo di un narratore costantemente dedito alla geometria della lingua, convinto della necessità della scrittura e della fatica che questa porta con sé.
Vittorio Salvemini è lo spietato imprenditore che in pochi lustri si è impadronito di «una città del Sud senza grandi tradizioni a parte l‘intraprendenza delle imprese edili e la tenacia degli studi legali», Bari. Lo chiamano, non è un caso, il “Genserico del Gargano”. Ha una moglie, Annamaria, e quattro figli, Ruggero, Clara, Michele e Gioia. Clara Salvemini è la secondogenita, una donna dalla bellezza deturpata, prigioniera di demoni interiori e delle più pericolose dipendenze. Il romanzo si apre con la sua morte. Michele è il figlio diverso, nato al di fuori del matrimonio, con la madre naturale morta durante il parto, da anni in cura per problemi psichiatrici. Michele, soprattutto, è l’unica persona a non arrendersi a quella che sembra un’immediata evidenza, che sua sorella, cioè, si sia suicidata – gettandosi da un autosilo, secondo la versione ufficiale.
Per raccontare una famiglia e una società convinte di poter dare alla vita un mero valore merceologico, occorre attaccare la rimozione, riportarla a galla. Proprio per questo scopo, Lagioia usa la figura di Michele: solo chi soffre un «dolore di cui nessuno sa niente possiede solchi in cui è possibile nascondersi», solo chi vive fuori dalla società può frantumarne la superficie. Dopo aver preso per anni le distanze dalla famiglia, andando a vivere a Roma, Michele torna a Bari deciso a smascherare il delirio della ricchezza e il rovescio dell’onnipotenza: il vuoto. Appalti truccati, mazzette, amanti bambine, droga, depressione, Michele non ha remore ad addentrarsi nel torbido se non nell’immondo, e con lui Lagioia, che fotografa impietoso e procede in circolo a scoprire la voragine. Non è un crollo verticale, ma uno sbriciolarsi inesorabile, svelato attraverso l’ipnotismo bernhardiano di una prosa tra le più pregiate del panorama italiano e non solo.
Quella de “La ferocia” è una narrazione spettrale, mai edulcorata, congegnata con precisione autoptica, testamentaria, e, insieme a quella del precedente “Riportando tutto a casa”, offre la più alta rappresentazione letteraria di una Puglia rovinosa, incapace di salvarsi da se stessa.