Sono impreciso: era la 1000 MIGLIA del ’50, del ’51, o del ’52? Di certo era poco dopo l’alba, ancora scuro. Appollaiato sul muretto della villetta-con-tracce-di-viola (!) dei parenti (cugini dei cugini dei cugini) sulla Nazionale di fronte alla fornace – circa dove oggi c’è la ERG – vedo bene e sto al sicuro. Tra un passaggio e l’altro posso pure sedermi gambe ciondoloni. Ho le braghe corte e il muretto è freddo. Non ho dormito, ovvio. Inebriato dagli acri odori degli scappamenti, gli occhi che mi bruciano, sento i pistoni nel cuore. Le auto spuntano dal ponte di Ragnola a fari accesi cambiando rumore, e qualcuno su un giornale spiegazzato, coi numeri di gara in ordine di partenza, le “spunta” mentre passano (le turismo a quest’ora), e le urla agli altri come un radiocronista. Ne mancano diverse, qualcuna anticipa, qualcuna ritarda, molte non passeranno più. Ritirate. Le penso sfracellate contro le case, giù nei burroni, o in fiamme, parafanghi e pezzi di motore schizzati dappertutto. Ma piloti salvi, impastati di grasso e di polvere (ingolfati di swing e di lacrime direbbe Paolo Conte), puzzolenti di benzina e di sudore, dentro tute da operai, però bianche sporche e “gonfie”, per niente eleganti ma eroiche. Buffo, come le auto mi sembrino tutte grandi, invece sono piccolissime (come la GIAUR rossa esposta oggi in Palazzina). Ci sono Balilla come quella di papà, affettuose Topolino grigio-topo scappottate e perfino una amaranto (del quarantasei?), Lancia Aprilia e Ardea, 1100 Sport, Cisitalia, 508 Coppa d’Oro… Auto quasi normali. Sembrano sul punto di esalare l’ultimo fiato, ma rombano, fumano, sulle gobbe saltano scomposte. Ognuna col suo profumo. Forse è domenica, ma oggi a messa non si va. Non ci si annoia un momento, interi quarti d’ora di silenzio senza un passaggio ma poi ne arrivano a gruppetti, e noi facciamo il tifo, senza capirci niente. Il bello è poi, intorno a mezzogiorno quando è l’ora dei “bolidi”, quelli potenti e veloci partiti per ultimi, che superati i più lenti arriveranno a Brescia tra i primi. Le Sport, le Gran Turismo. I professionisti e gli stranieri, o i gentleman, alla guida di Jaguar, MG, Zagato, Mercedes, Fiat-Osca, su “berlinette” e “barchette” rasoterra senza tetto nè vetri, sedili coi buchi e volante di legno. Uno di questi vince. E’ l’ora di pranzo, ma chi si muove. C’è uno al di là della strada, che da una radio (non un transistor, mica c’erano) sa dei passaggi a Pesaro, Ancona e più giù, così ad ogni scappamento lontano si tira a indovinare chi sarà. E quelli sfrecciano, frenano, cambiano, sbandano, sfiorano le balle di paglia, arduo pure leggerne i numeri. Non ho fame.
D’improvviso un trambusto: corre voce che “sotto Brancadoro”, in discesa, una macchina a 160 all’ora è come scoppiata, ha sbandato e s’è inchiodata muta e fumante. Morti? Pare nessuno. Ecco che si corre tutti, pure io, jemo a vede’! S’aggiunge papà, che era venuto, invano, a prelevarmi per mangiare. Non ricordo quanti eravamo, la strada, il tempo che c’è voluto, abbiamo corso da matti. Ma ricordo bene la scena dopo: l’auto color argento lucido, affusolatissima, coupé di non so quale strana marca, di traverso sulla scarpata, e i due atletici piloti, ormai senza casco, impronte degli occhiali sulla faccia come il Barone Rosso e tute bianche come astronauti (che ancora non c’erano), ad armeggiare sconsolati dentro il cofano sollevato. Ma ecco, compare mio padre e quelli inspiegabilmente gli saltano addosso festosi ed emozionati: sono di Trieste – sapremo subito – compagni di guerra, piloti d’aereo in Jugoslavia, o in Africa Orientale, Grecia, Albania… chissà. Gli s’è spaccato il cambio o addirittura l’albero di trasmissione, guasto irreparabile, corsa finita. Ma che bello, non tutti i mali… Li portiamo a casa nostra, a Ragnola, e raccontano e raccontano, loro in slang triestino, noi, io, agilmente in zaratìn. Mangiano in tinello (marron?) come lupi, poi dormono un po’. Di sera, recuperiamo la macchina con carro e buoi del contadino per portarla in stazione: sarà caricata la mattina dopo, con difficoltà, su un treno merci tra vagoni di frutta e verdura. Stop. Qui i ricordi si spengono, torna l’oblio, la fascinosa macchina d’argento e i suoi “bianchi” piloti di Trieste svaniscono. Chissà se anche papà, che non me ne parlò più, li ha più rivisti negli oltre 50 anni a venire. Quanto a me, solo casualmente ho riavvolto il tempo dei ricordi estinti: quando Mario, alla “rotonda”, mi ha steso la cartolina da lui dipinta della spider rossa N. 128 che “salta” sul dosso dell’Albula, alla velocità (da lui stimata, se n’intende, è ingegnere) di circa 130 km/h.
Quante 1000 MIGLIA, da allora… ma a volte ritornano.
Sbt, 18. 5. 2016 PGC