Francesca Bonafini (Verona, 1974) torna in libreria con un romanzo liberatorio, “La cattiva reputazione”, strizzando l’occhio a Tondelli e muovendosi sul crinale di un vertiginoso pentagramma narrativo. Dopo un matrimonio mandato all’aria all’ultimo minuto, un gruppo di amiche si mette in viaggio per sfuggire agli steccati della morale e delle opinioni di paese: ne verrà fuori un’avventura on the road sullo sfondo dell’Italietta provinciale e ipocrita della nostra epoca, che la Bonafini cerca di distruggere con una lingua di contagiosa vitalità.
Abbiamo rivolto alcune domande all’autrice, lieta di spiegarci i temi principali del romanzo.
Quando è nato “La cattiva reputazione”? Che cosa ha fatto scattare la scintilla dell’ispirazione?
Tutto è cominciato più di quindici anni fa, e alla radice di questo libro c’è il mio amore per la musica, e in particolar modo per quella che nasce dalle parole, ovvero attraverso una virtuosa combinazione sonora e ritmica delle medesime. Le mie scritture arrivano sostanzialmente da una fascinazione fonica e da una visione: il primo vagito è un balbettio ritmico che prende forma pian piano e che si innesta sulla rielaborazione di una fantasticazione, o di un ricordo, o di una riflessione. E la scintilla è sempre generata dalle mie letture: libri ruminati e metabolizzati al punto da produrre fantasticazioni, riflessioni, ricordi. Così è stato anche per “La cattiva reputazione”.
Hai deciso sin da subito che il romanzo si sarebbe sviluppato a partire da un matrimonio “mandato in vacca”?
Sì, questo è stato l’incipit da subito, e malgrado il lungo lavoro di lima è rimasto immutato nella sostanza. Non è stata una scelta programmatica, ma istintiva, intuitiva, che poi si è rivelata essere la rappresentazione scenica di uno dei temi centrali del racconto, ovvero il pericolo sotteso all’istituzionalizzazione dell’amore, che invece è per sua natura anarchico, libertario, nel senso che non può essere imbrigliato né imposto, ma che in virtù di questa libertà presuppone un’etica, presuppone il riconoscimento dell’alterità come altro da sé, e non come un possesso. Penso a Ivan Illich, che vedeva il male incarnato in ogni forma di istituzione: la sua è forse una posizione estrema, perché non possiamo vivere del tutto senza punti di riferimento. Ma mantenere un atteggiamento dubbioso di fronte all’irreggimentazione di ciò che, al contrario, è espressione di libera scelta e di gratuità, è probabilmente un buon modo per preservare l’autenticità di un legame, e quindi la capacità – o perlomeno il tentativo – di essere leali nei confronti dell’altro. “Rinunciando a un legame sicuro, avvio fra noi un rapporto libero” scriveva Illich. Sarò temeraria, ma mi piace pensare all’amore come a una promessa che si rinnova giorno per giorno, in totale autonomia da ogni condizionamento istituzionale. I condizionamenti istituzionali assicurano la facciata. Non la sostanza.
Una delle prime cose a colpire il lettore è la lingua pirotecnica utilizzata. Che tipo di lavoro hai fatto per trovare il tono giusto per raccontare questa storia e, soprattutto, da dove viene la lingua con cui l’hai scritta?
Fabrizio Frasnedi diceva che si scrive con l’orecchio, e io mi riconosco in questa sua affermazione, perché ciò che mi ha sempre guidata nel lavoro sulla scrittura è proprio quello, l’orecchio: quando scrivo vado alla ricerca di un ritmo. La particolare lingua de “La cattiva reputazione” nasce dal fatto che Nina, la voce narrante, percepisce con godimento il sapore delle parole: se le mastica, ci gioca, le combina insieme in modo talvolta inconsueto, personale, idiosincratico. Nina sa che ogni singola parola è un viaggio, ogni parola contiene mondi, ogni parola può essere sorprendente. Inoltre, avverte il fascino delle parole desuete, capisce che ci sono molte parole perdute che possono essere un nutrimento per la sua vita, se non per quella della maggioranza delle persone. E soprattutto sa che quando le parole sono combinate bene insieme – e le parole combinate bene insieme per eccellenza sono quelle della letteratura, e, in particolar modo, della poesia – danno origine a un godimento acustico che si imprime nella memoria e che si ripresenta poi nella quotidianità rendendola più vivace, più gustosa. Ed è per questo che nel discorrere di Nina affiorano stilemi di Dante, o di Pulci, o di Ariosto: le parole dei libri da lei amati si mescolano giocosamente e gioiosamente a quelle di tutti i giorni. È ciò che succede a chiunque si innamori delle letterature: quelle parole combinate insieme così bene, che suonano così bene, e che ci aprono mondi, prospettive, visioni, ecco che finiscono per incarnarsi in noi, ritornano a vivere nella nostra voce.
Che ruolo gioca nel romanzo l’insofferenza per il perbenismo di provincia e i suoi steccati?
È uno dei temi portanti del libro. Nina è insofferente alla facciata, alla finzione, al fatto che tendiamo tutti a costruirci paraventi di rispettabilità dietro cui nascondere ciò che non sarebbe giudicato opportuno, conforme ai comportamenti della maggioranza. Perché avviare un intimo dialogo con noi stessi in merito al nostro desiderio più autentico – desiderio inteso come attitudine e come vocazione, ossia cosa vogliamo fare della nostra vita – non è mai facile. Tanto più che gli altri sono sempre pronti a disapprovare. Ma il fatto è che, in fondo, sono sempre pronti a disapprovare comunque. I social network, da questo punto di vista, sono emblematici di ciò che è sempre esistito, ma che attraverso queste “piazze allargate” diventa persino più brutale: qualsiasi cosa che riguarda le vite altrui, anche la più futile, è motivo di chiacchiera, di discussione, di lapidazione. E con quanta violenza. Per un giorno, due giorni. Poi si passa ad altro, ad altri capri espiatori. Con altrettanta violenza. A volte mi domando come mai le persone sentano così forte il bisogno di esprimere un’opinione continuamente e su qualsiasi cosa. Davvero è così imprescindibile? E perché non ci preoccupiamo invece di quanto le parole possano pesare? Di quanto possano ferire, condizionare, marchiare?
Con tutta questa pressione giudicante che ci opprime, e con la quale – beninteso – tendiamo a opprimere gli altri, è perfino comprensibile che molti preferiscano fingere, aggregarsi, scegliere una doppiezza ipocrita. Ma a che prezzo? E la domanda non riguarda solo il prezzo che paghiamo noi stessi tutte le volte che rinunciamo a essere coerenti con ciò che desideriamo veramente, ma anche le persone che, fingendo, inganniamo.
“La cattiva reputazione” è un romanzo on the road. Ci sono stati negli ultimi anni dei romanzi che secondo te hanno raccontato la strada e il viaggio in modo nuovo e che magari ti sono stati utili durante la scrittura?
Ho iniziato a scrivere il libro così tanti anni fa che mi verrebbe spontaneo dichiarare un debito con Kerouac, quindi con un classico della letteratura novecentesca legata al viaggio, perché quella è una lettura fatta durante la mia giovinezza e che sicuramente ha agito in me in qualche modo. Ma in ogni scrittura c’è sempre una sedimentazione di letture piuttosto densa, più o meno inconscia, al di là dei riferimenti voluti, siano essi espliciti o sotterranei, ma comunque emblematici di quel dialogo che ogni autore intraprende con i testi del passato. Kerouac a parte, che però non ho più riletto e di cui ricordo poco, mi sa che il vero debito d’amore ce l’ho con il viaggio di Dante all’Inferno.
Che musica hai ascoltato durante la scrittura del romanzo?
Nelle ore in cui scrivo ho bisogno di silenzio, perché la musica mi distrarrebbe dalla musica delle parole, quella che provo a fare attraverso le parole. Ma le mie giornate sono sempre piene di ascolti musicali. “La cattiva reputazione” ha avuto una gestazione lunghissima, per cui ha vissuto insieme a me molti amori musicali, avendo io avuto, nella mia vita, molti amori musicali. Tra i più intensi, appassionati e duraturi – è ormai notorio perché ne ho scritto in varie occasioni – c’è Ivano Fossati, che per me è un faro anche dal punto di vista del suo lavoro sulla lingua. Ma la lista potrebbe essere lunga. Amo molto il fado portoghese, e amo la música popular brasileira (la cosiddetta MPB): Caetano Veloso, Chico Buarque, Maria Bethânia, per dire alcuni nomi tra quelli che più mi sono cari. Queste passioni lusofone riecheggiano però soprattutto nel mio precedente romanzo, “Casa di carne”, uscito nel 2014, e anch’esso edito da Avagliano. Ma per ciò che riguarda i miei ascolti più assidui degli ultimi anni ti devo dire soprattutto questo nome: Glenn Gould. E poi c’è il melodramma, che ne “La cattiva reputazione” ha un ruolo di primo piano. Il teatro d’opera mi ha sempre affascinata. Era una grande passione del mio amatissimo Fabrizio Frasnedi, e da quando lui non c’è più sento ancora più intensamente il desiderio di raccogliere anche questa eredità: una tra le molte che ha lasciato a chi ha avuto la fortuna di incontrarlo sul proprio cammino.
Che ruolo ha la musica ne “La cattiva reputazione”?
Ha un ruolo fondamentale. Non solo perché Nina e le sue amiche viaggiano all’inseguimento di un gruppo musicale, ma anche perché Nina percepisce nella musica qualcosa di salvifico. Nel suo caso, una sorta di consolazione per l’amore perduto, e una rinascita possibile. E la musica è salvifica davvero. Tocca corde profonde, muove, commuove. Per dirla con Rilke: rapisce, consola, aiuta.
Puoi dire qualcosa sul titolo?
È la traduzione in italiano del titolo di una canzone di Georges Brassens, “La mauvaise réputation”.
Da giovanissima ho amato le canzoni di Brassens, al quale approdai grazie a un’altra mia passione, Fabrizio De André, con le cui canzoni sono cresciuta. “La cattiva reputazione” mi è sembrato un titolo perfetto per questo mio romanzo d’amore e d’anarchia.
Che riscontri stai ottenendo da pubblico e critica?
Non posso che dirmi felice, e non solo per la ricezione di questo libro. Il mio lavoro sulla scrittura ha avuto negli ultimi anni parecchi riconoscimenti, alcuni dei quali per me particolarmente significativi. Talmente significativi che potrebbero bastarmi per il resto della mia vita.
Ho fatto e continuo a fare il mio percorso a piccoli passi, e talvolta anche con un certo pudore, perché quando mi accingo a prendere parola mi chiedo se non sia più saggio invece, in mezzo all’incessante frastuono di quest’epoca particolarmente logorroica, restare in silenzio. E ora, dopo tre romanzi e svariati racconti, mi chiedo spesso se ho ancora qualcosa da aggiungere, e se ho gli strumenti per farlo. Il fatto è che le parole continuano a sembrarmi preziose. Perciò, spero di riuscire a non abusarne, ma di limitarmi all’essenziale.