Quella volta che non fui vittima di stupro

Quella volta che non fui vittima di stupro

 

di Raffaella Milandri

 

Ci ho pensato molto prima di raccontare questa mia esperienza. Con pudore e con vergogna. Ho temuto che subito qualcuno dicesse: “Qualunque cosa sia successa, se l’era cercata”. E se io mi sento profondamente a disagio, e cerco di avere coraggio, nel raccontare di aver subito un tentativo di stupro, tanti anni fa, pensate come si può sentire una donna che oggi ne sia davvero vittima. Immaginate quali barriere di educazione, di pensiero, di società, si pongano di fronte a una donna che abbia subito uno stupro. E subito capirete quanti casi non detti, non raccontanti, non denunciati ci possano essere. Racconto la mia esperienza perché credo che possa essere utile a qualcuno, anche fosse una, sola, unica persona.

Avevo circa diciotto anni, voglia di vivere, di affermarmi come individuo, di ribellarmi. Erano i tempi in cui non sembrava così pericoloso uscire da sola, e pur tuttavia le proibizioni familiari erano forti, le regole ferree, l’orario di rientro categorico. Fino ai 18 anni praticamente dovevo sempre rientrare prima del tramonto, come se il buio nascondesse chissà quali mostri. Mia madre era fuori per alcuni giorni, e strappai a mio padre – più indulgente – il permesso di uscire di sera con una mia amica, quella di sempre, anche lei soggiogata da una madre-padrone. Uscimmo nella sera tiepida di giugno, a piedi, ebbre di libertà e ansiose di fare qualcosa controcorrente, pur se povere di mezzi economici. L’alcol ci sembrò subito il “delitto” ideale, una cosa diversa e trasgressiva. Andammo al negozio di liquori contando i soldi e gli spiccioli nascosti in tasca e raggranellammo quanto bastava per una bottiglia di vodka al limone. E due bicchierini di carta. Ci recammo sotto la pinetina con fare circospetto, ridacchiando nervosamente di fronte a questa “marachella” che oggi farà sicuramente sorridere molti. Iniziammo a bere, a ridere, a inventarci racconti di quella vita che non avevamo ancora vissuto e che si proiettava davanti a noi come la granitica sicurezza di un futuro. Sotto la pinetina, ogni tanto passava qualcuno, un ragazzo timidamente si avvicinò, poi altri due, attratti dalle nostre risate e dalla nostra femminilità incerta. Dopo mezza bottiglia a stomaco vuoto, eravamo lanciate come missili nello straparlare, sghignazzare, nell’assecondare le nostre menti annebbiate. Erano ormai le undici di sera, ora di tornare. Camminavamo piegate a metà dall’alcol, offuscate e appena coscienti di noi stesse. Quattro ragazzi, gentili e sorridenti, si avvicinarono suadenti. Erano i tempi in cui il clichè di comportamento era molto rigido. Gli dicemmo i nostri nomi e continuammo a camminare verso casa senza dare confidenza, cercando di tenere un contegno nonostante la sbronza. La nostra prima sbronza! Ci seguirono. Onestamente, il pericolo era l’ultima cosa a cui pensare, eravamo ubriache ma compiaciute di avere riscosso un interesse da parte di quei ragazzi. Perché in fondo eravamo convinte di essere brutte. Ad un tratto, ci si affiancò la macchina della madre della mia amica che ci apostrofò in modo brusco come se fossimo state colte a delinquere. La mia amica impaurita scomparve dietro lo sportello. Io, in un impeto di orgoglio, rifiutai il passaggio in auto con voce impastata. Mi bastavano le sgridate dei miei, non avevo bisogno di quelle della madre della mia amica. E poi, mi vergognavo. Continuai a procedere verso casa seguita dai quattro “bravi ragazzi”, che cominciavano a farsi insistenti e volevano portarmi “a bere qualcosa o a mangiare un gelato”. Arrivata sotto casa, citofonai. Mio padre non era rientrato. Aprii il portone con la mia chiave e salutai i quattro, che si infilarono dietro di me. Non mi mollavano. “Dai ci divertiamo” dicevano un paio toccandomi il braccio e cercando di abbracciarmi. Un segnale di pericolo comparve nella mia mente offuscata, e l’unico cosa chiara fu: “No non voglio”. Mi circondarono, stringendomi al muro. Mani dappertutto. La vergogna mi impedì di gridare aiuto, pensai ai vicini del palazzo. Io ubriaca e con quattro ragazzi! Lottavo affannosamente, mi stavano importunando pesantemente e cercando di togliermi la maglia. Improvvisai una tattica: “Ma ora sto male, ho bevuto, ho sonno. Ci vediamo domani e ci divertiamo”. Cercai di individuare il “capobranco”. “Poi io preferisco lui. Da solo”. Ripetei le stesse frasi all’infinito, guadagnando un po’ di tempo. Nel frattempo il mio spazio vitale era inesistente. I quattro mi erano appiccicati e uno di loro cercò di tapparmi la bocca. I miei tentativi di temporeggiare, di promettere “divertimento” sembravano sempre più patetici. Capivo che non erano ragazzi cattivi e usi alla violenza, ma ormai costituivo una occasione irrinunciabile. Un canto di sirena. Il mio respiro era affannoso e il mio cuore stava per esplodere. Cercai di divincolarmi e di graffiare chi mi capitava, col dubbio che la violenza non mi avrebbe aiutato. Ad un tratto, un rumore di chiavi, il pesante portone che si apriva stridendo: mio padre che rientrava. “Lella cosa fai lì? Chi sono questi?”, disse mio padre, che non si rese conto di cosa stesse per succedere. I quattro fecero all’unisono un passo indietro. E io un balzo avanti: “Niente babbo, sono contenta di rientrare insieme a te”.

2017-09-24

 

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