E’ tornata da poco da un nuovo viaggio nelle riserve indiane degli Stati Uniti e sta preparando la proiezione di un reportage che terrà il 14 ottobre alle ore 18.00 all’Auditorium Tebaldini di San Benedetto del Tronto. Raffaella Milandri: scrittrice, giornalista, fotografa umanitaria e attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, viaggia in solitaria nei più remoti angoli del Pianeta. E’ membro adottivo della tribù Crow in Montana e del popolo dei San in Botswana. Vediamo i punti chiave di questo personaggio dalla indubbia originalità operativa.
Chiediamo innanzitutto di chiarirci, Raffaella, cosa significa per te essere una “attivista”?
“Essere attivista per me vuol dire innanzitutto avere a cuore una o più cause per i diritti umani, ed essere pronta ad espormi in prima persona per esse e per gli ideali in cui credo. La giustizia oggi non va certo a braccetto con gli interessi economici di governi e multinazionali, per cui spesso mi trovo in situazioni di pericolo in cui devo essere “under cover”, sotto copertura, per fare delle inchieste e per poter poi divulgare le verità e le testimonianze che raccolgo. In questo l’essere donna mi aiuta tantissimo, come dico spesso: ‘ quando fingo di essere una donna stupida, ci credono sempre ’. Chi è donna mi comprende benissimo”.
Perchè viaggi in solitaria?
Viaggiare da sola mi permette di cambiare programma all’ultimo minuto, di fare deviazioni sulla base di informazioni o conoscenze vicine ai temi delle mie ricerche. Mi permette di rischiare senza mettere in pericolo altre persone. Ma, cosa fondamentale, mi permette di approcciarmi a nuove realtà, o a comunità, o a remote tribù, dove essere sola, ed essere donna, fanno sì che io sia accolta molto più facilmente. Diciamo la verità: non faccio paura a nessuno.
Perchè ti occupi dei Popoli Indigeni?
Perchè hanno una spiritualità e una connessione alla Madre Terra che noi abbiamo perso quasi del tutto; abitano o hanno sempre abitato in paradisi terrestri che hanno sempre rispettato senza sfruttamenti o sprechi. Sono in netto contrasto con la civiltà occidentale e con lo stile di vita “moderno”. Hanno un legame profondo con ogni essere vivente, animale e vegetale, e per loro l’inquinamento ad esempio è un vero e proprio insulto alla vita. Sono una realtà fondamentale per capire il mondo moderno, e per apprendere una sapienza millenaria che, insieme alle loro culture, linguaggi e usanze, sono un vero Patrimonio dell’Umanità.
Ma tra diritti umani dei Popoli Indigeni e diritti di noi occidentali, quali sono per te più importanti?
Entrambi, in ugual modo. I Popoli Indigeni hanno sperimentato per primi, avendo sempre avuto meno diritti alla terra e al possesso di essa, cosa vuol dire essere sacrificati per denaro, e per lo sfruttamento delle risorse naturali. Noi ancora ce la caviamo, ad esempio a San Benedetto del Tronto i cittadini si sono espressi in prima persona contro lo stoccaggio del gas, che costituisce una minaccia all’ambiente e alle persone. Nelle Black Hills per esempio, i Lakota hanno visto sorgere ben due miniere di uranio senza potersi realmente opporre, e solo ora stanno valutando i danni: inquinamento delle falde acquifere con relativo incremento esponenziale dei casi di tumore. L’inquinamento, secondo il rapporto 2015 della Lancet Commission on Pollution & Health, causa 9 milioni di morti l’anno, di cui mezzo milione nella sola Europa. Siamo tutti sulla stessa barca, e occorre prenderne coscienza.
Cosa hai riportato a casa dalla ultima esperienza nelle riserve indiane?
Tanta umanità, e nuove amicizie profonde basate su un sentire comune. Ma anche tanta tristezza. I Nativi Americani avvertono moltissimo i cambiamenti del nostro Pianeta e della società civile, proprio perchè le loro terre sono, rispetto a quelle originali, grandi come fazzoletti. E perchè vivono ai margini della società americana, in riserve che sono tanti piccoli microcosmi collegati da stili di vita e tradizioni comuni. Per loro problemi come l’inquinamento dei fiumi, l’uso del fracking per estrarre il gas, la perdita delle tradizioni sono dei drammi terribili, di cui noi non ci accorgiamo, presi come siamo nel vortice del consumismo e dei valori imposti dall’economia globale. Pensiamo al portafoglio, ma perdiamo di vista cose ben più importanti.
Quindi il tuo ultimo libro “Liberi di non comprare” è un appello collegato alle tue esperienze con i Popoli Indigeni?
Senz’altro. E’ un libro molto provocatorio che ha acceso molte discussioni poichè chiama in causa tutti noi, uomini occidentali. E critica il senso della vita, privo di etica e di umanità.
Prossimi programmi?
Sto iniziando un nuovo libro, una guida etica alle riserve indiane con cui vorrei aiutare i Nativi Americani indirizzando a loro favore i flussi turistici. A patto che i visitatori si comportino con profondo rispetto. Con la Omnibus Omnes, di cui sono presidente, stiamo organizzando appunto alcuni eventi legati ai Nativi Americani tra cui un mio convegno reportage il 14 ottobre, una introduzione alla lingua Lakota, e un incontro con Lance Henson, un poeta Cheyenne che abbiamo già avuto il piacere di ospitare a San Benedetto. In programma anche la celebrazione del Buy Nothing Day, ma per adesso è top secret.