Aldous Harding “Designer”

Aldous Harding “Designer”

Etichetta: 4AD
Brani: Fixture Picture / Designer / Zoo Eyes / Treasure / The Barrel / Damn / Weight Of The Planets / Heaven Is Empty / Pilot
Produttore: John Parish

 

 

Aldous Harding, neozelandese di ventinove anni, è la più eclettica e spiazzante tra le cantautrici emerse nell’ultimo lustro. Designer è il suo terzo album e mostra le stigmate di una maturità già acquisita, di una grandezza artistica ormai inequivocabile. Oltre che autrice sensibile e originale, Aldous è, a differenza di tante sue colleghe, anche una straordinaria performer: basta assistere ad un suo live per rendersene conto o, più semplicemente, guardare il video di The Barrel, in cui appare vestita con un improbabile cappello a cilindro e dedita ad un assurdo balletto. Aldous ama, in senso positivo, prendersi gioco dell’ascoltatore o quantomeno disorientarlo, sicché non sorprenda l’abbinamento di eleganti sonorità west coast (la produzione è a cura di John Parish, già produttore del precedente The Party) con testi obliqui, pieni di fascino oscuro anche quando rasentano l’incomprensibilità. “Why, what am I doing in Dubai?/In the prime of my life/Do you love me?/Cried all the way through”, si lamenta in Zoo Eyes; “I made it again to the Amazon/I’ve got to erase, the same as the others/And I see it far cleaner than that” canta in Treasure: difficile dire di cosa parli, eppure proprio le due ballate appena citate sono piene di una bellezza così irresistibile che sarebbero sufficienti da sole per mettere Aldous su un piano non troppo distante da artiste come Feist, Cat Power o anche, perché no, PJ Harvey.

 

L’apertura di Fixture Picture sembra rimandare direttamente ad una California a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, giocata su un’avvolgente tessitura acustica e una voce docile prima che, a metà brano, un violino entri per cambiare le carte in tavola e trasformare il pezzo in un rebus sentimentale. The Barrel gioca con il pop raggiungendo una vetta di svenevole raffinatezza.
Damn utilizza i toni gravi cari ad una certa Nico o alla Marianne Faithfull degli ultimi lavori per tratteggiare un commovente autoritratto fuori fuoco (“When I am led, I resent/Only when I’m left do I know what I said”). La successiva Weight Of The Planets è una sorta di seducente bossanova sotto sedazione. Haeven Is Empty l’ulteriore dimostrazione della pienezza interpretativa dell’artista, che mette i brividi accompagnata dalla sola chitarra acustica. Pilot il minimale sussulto che, citando Camus, chiude un lavoro senza momenti di debolezza, un album che conferma Aldous come la più arty, folle, disperata, autoironica, gotica, sensuale tra le giovani cantautrici.

 

 

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