Dire addio a Kobe Bryant

Dire addio a Kobe Bryant

La serata di domenica 26 gennaio 2020 sarà per sempre ricordata, non solo dagli appassionati di basket, per la terribile notizia arrivata attorno all’ora di cena: la morte di Kobe Bryant in un incidente con il suo elicottero nella contea di Los Angeles. Con lui sono morte le altre otto persone che erano a bordo, tra cui una delle sue quattro figlie, la tredicenne Gianna Maria, promettente cestista. Il mondo si è fermato per qualche secondo, mischiando incredulità, dolore, commozione, poi ha ripreso a girare sapendo che non sarebbe stato più lo stesso. Privato anzitempo di uno dei suoi più grandi artisti, quello di oggi è un mondo percorso da una lunga e inguaribile cicatrice.

 

I tifosi di Kobe Bryant avevano già dovuto fronteggiare un primo addio, quello avvenuto il 13 aprile del 2016, quando il campione dei Lakers giocò a Los Angeles la sua ultimissima partita NBA contro gli Utah Jazz. Kobe era uno di quei rari campioni dello sport per i quali il tempo sembra passare ad una velocità diversa rispetto al resto degli esseri umani: sarà che era arrivato giovanissimo in NBA (senza passare per il college), sarà che sin da subito ha dimostrato di essere un giocatore di un altro livello e che è riuscito a mantenere tale superiorità inalterata nel corso delle stagioni, fatto sta che si era portati a credere che uno come lui potesse giocare per sempre. E invece nel 2016 è arrivata la fine della sua parabola sportiva, dopo settimane di standing ovation tributategli in ogni arena d’America anche da parte di coloro che non lo avevano troppo amato. Onestamente, era difficile avere a che fare con uno così, sia da avversario che da compagno di squadra, con uno così ossessivo nella ricerca della perfezione, così ortodosso nell’etica del lavoro, a tal punto dedito ad un esasperato agonismo e concentrato sulla vittoria finale da mettere tutto in secondo piano.

Venti stagioni NBA, tutte con la canotta gialloviola dei Los Angeles Lakers, una metà con il numero 8, l’altra con il 24 – il primo per continuità con il numero scelto da piccolo, quando dava spettacolo sui playground italiani al seguito di suo padre Joe, ala, tra le altre, della Reggiana e dell’Olimpia Pistoia; il secondo per dire che se vuoi arrivare ad essere il migliore non basta il talento, ma occorre lavorare al tuo sogno 24 ore su 24. (Sul numero 24, in realtà, esiste un’altra teoria, quella che porta dalle parti del mito Michael Jordan e della sua iconica canotta 23 dei Chicago Bulls: Kobe, che ha sempre sfrontatamente puntato a superare il mito, non ha forse voluto dirlo platealmente anche con quel 23+1 sulla maglia?).
Cinque titoli conquistati, nel 2000, 2001, 2002, 2009, 2010, i primi tre in comproprietà con l’altra star Shaquille O’Neill, gli ultimi due da mattatore assoluto. Due ori olimpici, a Pechino 2008 e a Londra 2012. Terzo miglior marcatore della storia dietro Kareem Abdul-Jabbar e Karl Malone fino al giorno prima della sua morte (che assurda coincidenza!), quando è stato superato dall’attuale stella dei Lakers, LeBron James, con il quale si era calorosamente complimentato (“Grande rispetto per mio fratello King James” il suo tweet). E poi decine di altri record. Su tutti i più sorprendenti, per chi scrive, sono i seguenti: Kobe ha segnato almeno una volta 40 punti contro ogni squadra NBA e in ben 25 partite ne ha segnati più di 50.
Nel 2018 aveva persino vinto un Premio Oscar per “Dear Basketball”, il cortometraggio tratto dalla nota lettera d’addio del cestista al suo amore eterno, la pallacanestro.
E’ stato uno dei più incredibili vincenti nella storia dello sport, quello – proprio come Michael Jordan – a cui dare la palla per il tiro dell’ultimo secondo. Lo sottolineava lo stesso Kobe nella sua lettera: “Caro basket… rimarrò per sempre quel bambino con i calzettoni tirati su, il cestino dei rifiuti nell’angolo, 5 secondi sull’orologio. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1… Ti amerò per sempre”. Un eroe generazionale ed epocale, inscalfibile fonte di ispirazione per chiunque lotta nel proprio campo per superare se stesso ed, eventualmente, tutti gli altri. E’ così dura dovergli dire addio per la seconda volta, quella definitiva.

 

 

 

 

 

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