“Il corpo è come un romanzo”, intervista a Michael Frank

“Il corpo è come un romanzo”, intervista a Michael Frank

L’autore de “I formidabili Frank” torna con “Quello che manca” (Einaudi, pagine 368, euro 20,00 – traduzione di Federica Aceto).

 

 

Dopo il successo del memoir “I formidabili Frank”, che nel 2018 gli è valso il JQ-Wingate Literary Prize, Michael Frank torna in libreria con il suo primo libro di fiction, “Quello che manca”. Si tratta di un romanzo in tre tempi, il primo ambientato a Firenze, il secondo a New York, il terzo, brevissimo, in Liguria, e con tre protagonisti: Costanza, traduttrice italoamericana, Henry, un’istituzione nel campo della fecondazione assistita, e suo figlio Andrew, un diciassettenne con la passione della fotografia. I loro destini si incrociano a Firenze, dove sono in vacanza nella stessa pensione. Costanza conosce prima Andrew e stabilisce con lui un rapporto speciale fatto di affetto e confidenze, e in un secondo momento suo padre, dal quale rimane immediatamente affascinata. Le loro vite continueranno a rincorrersi, afferrarsi e smascherarsi a Manhattan e saranno travolte da desideri irrealizzabili e da verità tenute soffocate per troppo tempo. “Quello che manca” è un grande affresco dei nostri tempi, pieno di questioni scottanti, urgenti, ma raramente trattate con la stessa grazia letteraria.

Abbiamo rivolto alcune domande all’autore, che vive tra gli Stati Uniti e la Liguria e si esprime in un perfetto italiano.

 

 

E’ giusto dire che “Quello che manca” è innanzitutto un romanzo che parla di corpi? Il corpo è fondamentale nella narrazione, dai corpi osservati e fotografati da Andrew ai corpi curati da Henry fino al corpo di Costanza.

“Giustissimo. Il corpo umano, secondo me, è come un romanzo—pieno di storie, esperienze, segreti”.

Il “quello che manca” del titolo potrebbe far pensare immediatamente alla mancanza di un figlio per Costanza, in realtà le cose che mancano sono molteplici e la mancanza riguarda tutti i personaggi. Man mano che i profili psicologici dei protagonisti si delineano, sembra proprio che le loro vite siano indirizzate dal continuo confronto con la mancanza.

“Oltre al bambino che vuole avere Costanza, manca la conoscenza di se stessa. Questo vale anche per Henry e Andrew. C’è un rapporto che manca tra padre e figlio (Henry e Andrew e Henry e suo altro figlio Justin – ma anche tra Henry e suo padre, Leopold), tra madre e figlia (Maria Luisa e Costanza), e tra i due fratelli (Andrew e Justin). C’è il padre di Costanza che si è suicidato e ci sono anche i morti dell’olocausto (Leopold è un sopravvissuto ad Auschwitz). Ci sono segreti – ovviamente, è un romanzo! – che pian piano si rivelano. Al mio parere si può capire molto dal vuoto, da quello che non c’è”.

Come dici, spesso la mancanza risiede proprio nel rapporto tra genitori e figli. Ognuno dei protagonisti ha un rapporto talmente complesso con i propri genitori da rendere il romanzo particolarmente adatto ad una lettura psicoanalitica. Mi sembra, per esempio, molto interessante l’ipotesi psicoanalitica di Henry secondo cui Costanza ha iniziato a fare la traduttrice per tentare di dare una lingua comune all’incomunicabilità tra due stranieri, gli americani e gli italiani, che non erano altro che io suoi genitori separati, lui americano, lei italiana.

“Io sono convinto che, per capire un essere umano, devi capire da dove – e da chi – viene. Vale per la vita e vale anche per i romanzi. Da molto anni ho notato che, nei miei romanzi preferiti, c’è spesso un ritratto della famiglia dei personaggi principali, e mentre cercavo di capire chi erano Henry, Costanza, e Andrew, mi sono reso conto che dovevo incontrare e esplorare chi erano Leopold (il padre di Henry), Maria Rosaria e Alan (i genitori di Costanza) e naturalmente Henry, il padre di Andrew (e Justin) che aveva forse la psicologia più complicata di tutti”.

Un ruolo importante è affidato ai luoghi, agli appartamenti, agli hotel, agli studi medici. Hai una passione per l’architettura e l’interior design?
“Sono cresciuto in una famiglia con un forte senso dell’estetica; l’architettura e il design sono un po’ un mio hobby. Condivido questa passione con Costanza che, come traduttrice, comincia sempre con la scenografia. Io faccio la stessa cosa quando scrivo: prima di tutto devo vedere il dove”.
Firenze è descritta in maniera splendida, con gli aperitivi al tramonto in terrazza, i pranzi in osteria, lo struscio al mercato di San Lorenzo, le visite ai musei. C’è una luce dorata che, sin dalle prime pagine, sembra seguire i protagonisti. Credi che Firenze sia responsabile di questo? In altre parole, se il romanzo fosse stato ambientato altrove, l’incontro tra i tre protagonisti sarebbe stato allo stesso modo fatale?
“Ovviamente penso di no! Ho scelto Firenze per la sua magia e la sua intimità, sì, ma anche per la sua claustrofobia, che Andrew, per esempio, sente molto. Volevo evitare un’immagine della città che fosse troppo idealizzata. Quando leggo un libro straniero ambientato in Italia sono sempre colpito da questa abitudine di raccontare la bella Italia. Può essere una trappola”.
E’ una cosa più unica che rara trasformare il tema dell’infertilità (e della fecondazione in vitro) in letteratura. Credo che tu abbia corso il rischio di affrontare un argomento molto delicato e doloroso, riuscendo a farne arte. Quanto è stato difficile?
“Anche qui hai ragione. Ho affrontato il tema perché non avevo mai visto la fecondazione assistita rappresentata seriamente in un romanzo ed anche perché, confesso, con mia moglie abbiamo passato in quel mondo tre anni molto dolorosi. Il romanzo non è autobiografico ma allo stesso tempo, mentre vivevo quell’esperienza, pensavo “Devo descrivere questo mondo, questa sofferenza, questo percorso così straziante”. Alla fine, però, forse non ho colto neanche il 20 per cento di tutto quello che succede —biologicamente e psicologicamente”.
E’ vero che hai iniziato “Quello che manca” prima de “I formidabili Frank”? Poi cos’è successo?
“Avevo difficoltà con il finale. Ci stavo lavorando quando è morto mio zio. Ho pensato di fare una breve pausa e scrivere due righe su di lui… due sono diventate duecento, poi duemila, poi…”
Quanto la versione finale del libro è simile alla prima versione? Hai dovuto lavorare parecchio sul testo, sui personaggi, sull’intreccio?
“Posso rispondere in inglese? “All writing is rewriting” — scrivere vuol dire ri-scrivere. Non è sempre divertente, ma è fondamentale”.

 

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