Giuliano Giuliani, ode alla pietra che naviga

Giuliano Giuliani, ode alla pietra che naviga

…abbaglio, luce che emerge da un vuoto, delimitato dall’ombra dell’abisso più profondo, nel quale levitano lievi, come corpi a galla in balia delle onde… è la pietra viva di Giuliano Giuliani

Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.

Cesare Pavese

San Benedetto del Tronto – Si è tenuta sabato 12 giugno l’inaugurazione della primissima mostra della rassegna 2021 del Festival dell’Arte sul mare. Ad aprire la 25a edizione è stato uno dei pionieri che, nel 1996, al festival ha partecipato e nel festival ha sempre creduto: l’ascolano Giuliano Giuliani.

Il tema con cui gli artisti, questa estate, si sono posti in dialogo è il mare. L’arte dello scultore Giuliano Giuliani sembra, apparentemente, quanto di più distante dal mare e dall’ambiente marino possa esserci ma, ad un’analisi più attenta, ci si accorge che la sua materia d’elezione, il travertino, ricavato dalla cava paterna, deriva proprio dall’acqua, e che le opere da lui create sembrano galleggiare, come sospese in uno spazio quantico non più soggetto alla geometria euclidea, dove le forme a priori di tempo e spazio sono venute meno, cedendo il passo al sacro. Impressionante è, nel ductus scultoreo di Giuliani, la levità con cui egli esfolia la dura pietra, rendendola quasi foglia al vento, in balia del soffio vitale, che da sempre si mescola con l’apparizione del sacro e ne è epifania. Le sculture di Giuliani sono, infatti, da considerarsi quasi come abbaglio, luce che emerge da un vuoto, delimitato dall’ombra dell’abisso più profondo, nel quale levitano lievi, come corpi a galla in balia delle onde, ma governati da un demiurgo che è un abile rematore, in grado di controllare la marea, di volgerla al suo volere, indirizzando, in virtù del volo e della loro levità, il volgere degli eventi. Giuliani stesso parla di due assiomi che reggono il suo fare artistico: la convinzione della bellezza insita nella natura, umana e del creato, e l’angoscia della fine, della perdita. Da questa dicotomia deriva un’ansia di espressione che non è mai fine a se stessa ma che tende a diventare resurrezione, vita che ritorna, moto verticalizzante che si contrappone alla forza di gravità, che tende a schiacciare le forme al suolo, dal quale tuttavia le sculture, nel mare della loro atmosfera, riescono ad emanciparsi, galleggiando e acquisendo vita propria.

Un grande antropologo dello scorso secolo, Gilbert Durand, nel suo illuminante saggio del 1960 Le strutture antropologiche dell’immaginario, specifica come, secondo lui, gli archetipi junghiani non siano punti fermi immobili, ma vadano considerati come vettori che si muovono nello spazio e che hanno, perciò, una direzione. Il verso dell’archetipo marino è sicuramente quello orizzontale, calmo e sicuro, contrapposto a quello montano, verticalizzante ed inconcettualizzabile. Il mare è un fondamentale simbolo dell’immaginario collettivo, che rimanda, in quanto acqua, alle viscere della Mater Materiae, di cui la scultura è grembo fecondo facente interamente parte del corpo della forma: come dall’acqua viene la vita, da lì proviene il travertino caro a Giuliani, palingenesi e purificazione che deriva dal fluire acquatico, così come – a livello spirituale – il rito cristiano del battesimo. Il mare dunque può essere considerato una tipizzazione dell’inconscio, del lato lunare e femminile connesso all’acqua, latore di vita ma anche terribile distruttore, in grado di infliggere morte e dolore. Le imago mundi che emergono dalla mente dell’artista sono, in ultima analisi, forme astratte della coscienza che sprigionano, al contempo, tutta la loro concretezza artigianale e la loro etereità spirituale, pesanti formalmente ma leggere concettualmente, che compiono il miracolo di innalzare la gravità della materia e di fornirle leggerezza. 

Flavia Orsati

 

 

 

 

 

 

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