Bill Ryder-Jones “Iechyd Da” (Domino)
È sorprendente la naturalezza con cui Bill Ryder-Jones incarna la nobiltà del pop inglese. Lo è se si conoscono il suo vissuto, le sofferenze che ha svelato soltanto dopo la fine della sua avventura con i Coral e una ritrosia alle luci della ribalta divenuta sempre più palese con il passare del tempo. Dopo cinque anni di silenzio, l’artista del Merseyside sembra aver trovato il modo di tenere in equilibrio il suo lato oscuro sopra costruzioni sonore avvolgenti, ricche e a tratti addirittura spumeggianti. Bill assicura la coesione dei vari elementi con una certa maniacalità, rincorre la melodia perfetta e la veste come se fosse il direttore di una piccola orchestra. L’iniziale I Know That It’s Like This (Baby) è quanto di più dolorosamente rinfrancante si possa ascoltare in questa prima parte dell’anno, con il contrabbasso che introduce l’epilogo di una storia d’amore con passo felpato e quella citazione di un brano di Gal Costa che ha un effetto straniante: basterebbe un brano del genere per promuovere a pieni voti il disco. Ma ci sono anche emozionanti crescendo in zona Spiritualized, meravigliose sovrapposizioni di vita e arte, intellettualismi stemperati dalle urgenze di cuore, cori di bambini, canti in purezza e persino omaggi ai Mercury Rev di “Deserter’s Songs”, tanti altri momenti indimenticabili insomma, tra i quali non si possono non sottolineare almeno la grandeur quasi soffocante di This Can’t Go On e il melodramma vestito da walzer di How Beautiful I Am. L’album (il cui titolo in gallese sta per “buona salute”) è la vetta raggiunta da un artista in evidente stato di grazia creativa, benché continui a soffrire di una salute precaria, come in modo fin troppo esplicito racconta lui stesso, tra un «I’m out of my mind again/at least I’m not someone else» e un «got to get myself together/because this can’t go on». Non resta che dire grazie e iechyd da, Bill. VIDEO
Kamasi Washington “Fearless Movement” (Young)
Il sassofonista californiano, tra i più bravi negli ultimi anni ad affrancarsi dalle etichette di genere per abbracciare una musica onnicomprensiva che parte sì dal jazz ma che arriva all’infinito, torna alla grande con “Fearless Movement”. Ricco di ospiti illustri, da George Clinton a Thundercat, da André 3000 a Ben Williams, l’album celebra la danza come movimento emotivo. Lungi dall’essere un lavoro anche lontanamente dance, “Fearless Movement” ha però un innegabile baricentro ritmico. Brani come Asha The First e Get Lit sono lì a dimostrarlo. VIDEO
Laura Marling “Patterns In Repeat” (Partisan)
Il precedente “Song For Our Daughter” era il disco di un’artista che, non essendo madre, si rivolgeva ad una figlia immaginaria, «ad una figlia che potrei avere o anche a me stessa quando ero più giovane». Nel 2023, Laura è diventata madre per davvero e il suo ottavo album, “Patterns In Repeat” adotta un punto di vista per forza di cose nuovo. Laura ha realmente cantato a sua figlia in questi mesi, dando vita a composizioni imperdibili, tra le quali spicca Child Of Mine: quattro minuti di insostenibile poesia in cui è racchiuso tutto il mistero della vita generata, probabilmente la più bella canzone mai scritta da Laura. VIDEO
Tucker Zimmerman “Dance Of Love” (4AD)
Tucker Zimmerman è un ottantatreenne che ha esordito nei sixties guadagnandosi la stima di personaggi come David Bowie, tranne poi eclissarsi per decenni. Grazie all’interesse del gruppo più significativo del folk-rock contemporaneo, i Big Thief, improvvisamente però un cono di luce si è proiettato sul vecchio Tucker. “Dance Of Love” raccoglie un pugno di canzoni tenute nel cassetto per anni, canzoni che vengono vestite di poco (gli stessi Big Thief suonano e producono) ma quando la voce affaticata e profonda di Tucker inizia a sussurrare i suoi versi la magia si spande nella stanza e l’incantesimo è assicurato. VIDEO
Tapir! “The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain” (Heavenly Records)
I Tapir! sono una band nata poco prima del lockdown attorno alla comunità artistica della George Tavern, nell’east end londinese, e con il loro ambizioso esordio offrono una fuga dagli orrori del quotidiano e un tuffo in un paese di meraviglie gotiche, raccontando il viaggio di un pellegrino attraverso foreste prive di luce e mari in tempesta. La voce magnetica di Ike Gray prende per mano l’ascoltatore e lo porta in una selva oscura dove il progressive folk si sposa con la mitologia, il sassofono con il violoncello, la psichedelia va di pari passo con un’elettronica discreta. VIDEO
Nick Cave & The Bad Seeds “Wild God” (Bad Seed/Play It Again Sam)
“Wild God” è l’inno alla gioia di Nick Cave, una rinascita musicale dopo anni di cantautorato buio e atmosferico. Warren Ellis è sempre al fianco di Cave, ma c’è maggior spazio per gli altri Bad Seeds che liberano il loro estro in una musica che in alcuni casi assume connotati euforici o addirittura gospel. Dopo l’apertura straripante di Song Of The Lake, l’album mette in fila brani come Wild God, Frogs, Joy, O Wow O Wow (dedicata alla vecchia musa Anita Lane) che insieme celebrano la redenzione e sembrano dirci che la vita è meravigliosa, anche quando è orribile. VIDEO