L’antica storia delle Fave

L’antica storia delle Fave
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La regina della primavera: nelle Marche abbiamo ben due eccellenze

L’antica storia delle fave

Le fave probabilmente hanno origine in Africa settentrionale: questo legume è molto antico e il termine è di derivazione latina, faba, mentre nel mondo greco si chiamava kyamos e gli venivano attribuiti diversi valori simbolici. Le fave erano considerate afrodisiache, tanto che in un’iscrizione del VI secolo a.C. rinvenuta sull’isola di Rodi, si consigliava ai fedeli di non mangiarle se si voleva rimanere in uno stato di purezza. Venivano usate già in età arcaica per interrogare gli dei attraverso un sorteggio, una pratica che poi verrà traslata in ambito politico in età classica, durante la quale i legumi erano usati per le votazioni politiche. L’usanza di utilizzare le fave per votare continuò anche nel Medioevo e ancora nella Toscana ottocentesca dove, a questo scopo, le si dividevano in nere e bianche, una pratica testimoniata anche dall’espressione idiomatica “mettere alle fave”, ovvero, mettere a votazione. Bisogna sottolineare che le fave sono sempre state l’umile, ma indispensabile carburante proteico della storia passata: oggi, esse sono diventate il cibo della convivialità e della rinascita dell’orto in primavera, l’ingrediente principe delle prime scampagnate con gli amici.

Da aprile a giugno

Le fave hanno molti pregi, aiutano a favorire il buon funzionamento dell’intestino apportando una buona quantità di fibre, possono inoltre aiutare a contrastare malattie cardiovascolari e diabete controllando l’assorbimento intestinale di colesterolo e zuccheri, riducendo colesterolemia e glicemia. Le vitamine del gruppo B favoriscono il buon funzionamento del metabolismo, mentre la vitamina A e la vitamina C forniscono una protezione antiossidante. La vitamina C aiuta inoltre a rispondere efficacemente alle infezioni. Fra i minerali, fosforo e calcio sono alleati della salute di ossa e denti, mentre il ferro è importante per la produzione dei globuli rossi. Le fave non devono essere mangiate in caso di favismo (un’anomalia genetica che interessa alcuni enzimi contenuti nei globuli rossi) e potrebbero essere controindicate a chi è predisposto ai calcoli.

Gli errori da evitare

Le fave si deteriorano subito, attenzione a quelle più vecchie che hanno il baccello molliccio e chiazzato di nero; attenzione anche all’attaccatura dei semi al baccello se si presenta grigiastra.

Sarebbe un delitto cuocere le fave più “giovani”, piccole, tenere e soprattutto deliziose:

andrebbero mangiate crude, mentre si possono lasciare quelle più grandi per altre preparazioni. Le fave hanno uno scarto altissimo, pari a circa il 70%, per ottenere una quantità media di circa 250 grammi di fave pulite si deve comprare circa un chilo di prodotto.

Il tegumento, morbido e tenero nelle fave piccoline, diventa coriaceo nelle fave più grandi e

mature, quindi queste vanno spellate: basta sbollentarle in acqua bollente non salata per circa un minuto, lasciarle raffreddare per poi premere i semi, le fave usciranno dalla pellicola in un attimo.

Le fave fresche sono molto delicate e si conservano in frigo per due o tre giorni, dopodiché

anneriscono e si deteriorano: si raccomanda di mangiarle il prima possibile, tuttavia possono anche essere surgelate, sia pulite fresche che sbollentate per un paio di minuti.

Le eccellenze marchigiane

A Fratte Rosa, piccolo borgo in provincia di Pesaro, ci sono terreni ricchi di argilla bianca, i “lubachi”, dove nascono le fave. Risalendo all’epoca romana troviamo le prime tracce di questa coltura. I legumi hanno caratterizzato questo luogo nel corso dei secoli, motivo per cui è stata portata avanti un’operazione di recupero che ne ha preservato la tradizione. Le caratteristiche odierne del baccello si riconoscono per i quattro semi grandi dalla forma tondeggiante. Le fave sono sempre state presenti negli orti e proprio per questo sono arrivate fino a noi: il recupero ufficiale risale a circa venti anni fa. Dalle fave si ricava la farina, un prodotto assolutamente versatile che può essere utilizzato per il pane e la pasta: tipici della zono sono, infatti, i tacconi, una pasta fresca che si realizza proprio in questi luoghi, lavorati grazie al mix di farina di fave e di frumento, una preparazione antica che apparteneva alla cucina povera contadina. Da nord a sud delle Marche, arriviamo in provincia di Ascoli Piceno, esattamente a Favalanciata, una località sulla Salaria. Il nome dice già tutto: non si sa esattamente quale sia l’origine, ma il racconto narra di un contadino intento alla semina delle fave; se non spuntavano, l’uomo esclamava con delusione ‘’quanta fava lanciata!’’. Molto probabilmente questo è solo un aneddoto, ma di sicuro questo legume è stato protagonista della storia di questo territorio non solo come alimento. Le fave, come molti altri legumi, rappresentano qualcosa che ha viaggiato nel tempo ed è passato attraverso i secoli sostentando l’uomo: le fave hanno resistito a tutti i cambiamenti, continuando a caratterizzare il territorio Piceno, diventando ricche di significato. Questo lungo percorso porta in dote un bagaglio che si sviluppa nel doppio binario delle abitudini alimentari da una parte e della cultura dall’altro. Nel consolidamento delle tradizioni, si vede quanto sia profondo e radicato il legame con tutto ciò che ha plasmato i semplici gesti, ripetuti come fossero un testamento mai dimenticato, anzi recitato e trasmesso affinché le nuove generazioni potessero farne tesoro. La Comunità Slow Food di Favalanciata è custode di tutto ciò, in un impegno quotidiano per la valorizzazione di questo prodotto e del territorio.

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