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“Baarìa” di Giuseppe Tornatore

di | in: Primo Piano, Recensioni


Il c’era una volta in Sicilia di Tornatore è un film-monstre di quasi tre ore che confonde la voglia di raccontare con il narcisismo, che al supermercato dell’autocompiacimento trova uno stuolo di stelle pronte a contribuire allo spettacolo e che si imbatte in un Morricone che si autocita con un tema mastodontico ma già sentito in troppe altre occasioni. 
Il regista siciliano ha coraggio a scegliere due protagonisti sconosciuti, specie un Francesco Scianna piacevole scoperta che invecchia e imbianca come James Woods, ma nel suo c’era una volta non fa Leone, semplicemente – strano a dirsi per un film di quasi tre ore – ne manca la lentezza. A Tornatore piace correre, a costo di affastellare e sovrastratificare fino all’indistinguibilità. Ed ecco tre ore vertiginose, con soluzioni di continuità cercate a forza e schiacciamenti temporali che minano lo svolgersi fluido della vicenda, ma che nondimeno permettono alla regia di stagliarsi padrona della scena, in alto come spettacolo pirotecnico. Tre ore in cui si mischiano registri e generi diversi, dal comico al grottesco, dal melò al drammatico. Fino all’onirico, con una simbologia che deraglia nel decorativo, il susseguirsi di orpelli popolari che reitera la sicilianità più sognante, spesso magica – in questo toccando più Garcia Marquez che Leone. Non a caso la corsa, mo(vi)mento-chiave del film, si trasforma in volo già nei primi minuti, e l’attimo che precede il volo di una mosca intrappolata e rimasta viva per decenni dentro una trottola di legno sottolinea il finale e chiude il cerchio.
I contenuti sociali e politici, dosati con sapienza in sede di sceneggiatura, danno un taglio d’interesse centrale, una visione del tutto che trova nelle piccolezze quotidiane spazi impensabili al giorno d’oggi, come se la memoria potesse assisterci e coccolarci mentre le debolezze della nostra attualità non fanno che sbatterci a terra fino a farci deridere noi stessi. Nella società rurale dove un pastore sul letto di morte ripete «la politica è bella», condannato ad una bandiera rossa, e dove un comunista – ma riformista – va in Russia e vede «cose terribili», l’equilibrio dei toni è inattaccabile, e così quello dello script.    
Sui monti d’intorno ci sono tre cime che nascondono un tesoro: il (non) luogo di rifugio ideale per un regista che non conosce misura e proprio quando smarrisce la misura ammicca senza riguardo al cinefilo che non disdegna l’alto budget, quanto più saturo tanto più benevolo agli occhi di chi accorre ogni volta a vedere Tornatore con gioia. Ma a quel punto è già chiaro da un pezzo che il c’era una volta in Sicilia sia un mezzo secolo di solitudine.
A Bagheria il tempo non si muove e l’immobilità non ha mai avuto al cinema una tale inventiva: è questa la battaglia ossimorica che si combatte nel film. Alla fine di “Baarìa” lo spettatore, felicemente sconfitto o fievolmente esaltato dalla via tutta tornatoriana al virtuosismo, può avere l’impressione che la lunga storia raccontata non abbia fatto che un piccolo impercettibile passo, o può correre il rischio di non cogliere nemmeno quel passo, come quando Peppino torna a Bagheria da Parigi, dove era emigrato per lavoro, e con la valigia in mano viene scambiato dai compaesani per uno che sta per partire: come se nessuno avesse notato la sua assenza o, leggendo in trasparenza, come se il tempo della sua assenza non fosse trascorso, perché trascorso senza che succedesse niente. Senza che la storia facesse il suo passo.




1 Ottobre 2009 alle 20:38 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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