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Best of 2009: i migliori dischi dell’anno

di | in: Play List, Primo Piano


Che il 2009 non sia stato avaro di grandi dischi è dimostrato dalla difficoltà nel compilare la top five dei migliori dischi dell’anno. E allora prima di parlare dei cinque titoli scelti per rappresentare il meglio di ciò che il rock ha prodotto negli ultimi dodici mesi, ricordiamo tutti quei dischi che avrebbero potuto finire nella top five ma che per motivi di spazio ne sono rimasti fuori. Da “There Is An Ocean That Divides…” di Scott Matthew a “Notes To An Absent Lover” di Barzin, passando per “Wilco (The Album)” dei Wilco, “Years Of Refusal” di Morrissey, “At The Cut” di Vic Chesnutt, “Six” dei Black Heart Procession, “Sometimes I Wish We Were An Eagle” di Bill Callahan e “Little Hells” di Marissa Nadler.


 
1 – Antony and the Johnsons “The Crying Light” (Secretly Canadian/Rough Trade)


antony and the johnsons- the crying lightQuaranta minuti tra i più emozionanti mai sentiti negli ultimi anni. Con il terzo lavoro sulla lunga distanza, Antony giunge al perfetto equilibrio tra le parti che sostengono la sua musica e realizza il suo capolavoro. Quella voce ultraterrena, tremula, difficile da descrivere a chi non l’ha mai sentita (la rivista Spin l’ha definita “simile al suono di un sassofono”, la BBC “qualcosa a metà strada tra la voce di una diva jazz e il pianto di una bestia ferita”), indimenticabile per chi si è lasciato trafiggere anche una sola volta, si accredita definitivamente come la voce del decennio che sta per concludersi, come quella di Jeff Buckley lo era stata degli anni Novanta. “The Crying Light” è uno di quei rari dischi il cui primo ascolto non si dimentica perché, letteralmente, pietrifica. Trattasi davvero di opera assoluta, oltre lo status di classico che Antony sembra aver attaccato addosso sin dal suo primo apparire. Quasi trenta musicisti coinvolti, quattro arrangiatori e strumenti che vanno dal flauto all’arpa, la copertina dedicata a Kazuo Ohno, creatore della danza Butho, “The Crying Light” è l’album della maturità in cui Antony si scrolla di dosso le tematiche connesse al proprio io che caratterizzavano i primi due album, cerca interlocutori al di fuori di sé e aspira all’universalità, parla la lingua della natura, parla con la natura.

2 – Animal Collective “Merriweather Post Pavilion”
(Domino)


Animal_Collective_Merriweather_Post_PavilionNel territorio tra acid folk e psichedelia, gli Animal Collective sono attualmente il gruppo più avanti in circolazione. Con “Merriweather Post Pavilion” aggiungono un tassello decisivo alla loro già splendida e copiosa discografia. Che siano diafani, come nell’opener In The Flowers, o divertenti, in filastrocche come Lion In A Coma, Panda Bear (questo il curioso pseudonimo di Noah Lennox, voce, chitarra, samples e percussioni) e company hanno la capacità di assemblare i loro brani come fossero costruzioni lego, dando sempre l’impressione di avere in tasca il mattoncino giusto del colore giusto per sollevare da terra la loro costruzione e lanciarla nello spazio. La stratificazione di suoni raggiunge un senso compiuto che sfiora il pop in Summertime Clothes e un tono di epicità nell’incredibile Daily Routine, con quel verso di perfetta indolenza («just a sec more in my bed») che si scolpisce nella mente dell’ascoltatore come un carico di zuccheri. “Merriweather Post Pavilion” è un disco di farfalle beatlesiane immerse in un mare di loop e diavolerie tecnologiche. Basta il primo ascolto di My Girls, con la sua melodia catchy e il suo ritmo scalpitante a rendere l’idea. Capolavoro iperglicemico.

3 – Califone “All My Friends Are Funeral Singers” (Dead Oceans)


 califoneArrivato a tre anni di distanza da “Roots & Crowns”, “Funeral Singers” è un lavoro che prosegue sulla scia del predecessore ma con un occhio strizzato al pop in più. Se sembra blasfemo l’utilizzo del termine pop, lo si intenda in un’accezione che abbracci l’innegabile girare di queste nuove canzoni, il loro entrare in testa a discapito dei lavori di sottrazione, decostruzione e rimanipolazione a cui sono state sottoposte. “Funeral Singers” fotografa il momento della carriera in cui Tim Rutili, Jim Becker, Joe Adamik e Ben Massarella cercano l’affondo più diretto, compattando i suoni in un fascio di luce obliquo che lascia stupiti. Il suono creato dai Califone è talmente alieno che potrebbe provenire da un’antichità abissale o da un futuro insondabile. Che sia nostro contemporaneo, che arrivi da Chicago e da maestri decostruzionisti abituati a scomporre i generi in una primitiva sonorizzazione dei propri incubi non può che farci piacere. Il singolo Funeral Singers è un crescendo di intensità e cantabilità che, senza dissonare col resto, rappresenta il momento più radiofonico dell’album. Buñuel offre epicità inscatolata dentro ruvidezze da frontiera, Ape-Like un vortice di bollori, Alice Marble Gray ossessioni senza scampo, Salt la versione acustica di un ipotetico incontro tra Beck e Rolling Stones.


4 – M. Ward “Hold Time (4AD)


 m ward hold timeM. Ward è uno dei migliori cantautori venuti fuori negli ultimi anni perché ha qualcosa da dire e un modo originale di farlo, due meriti, in un panorama in cui i cloni sono la regola, non da poco. Far convivere l’anima folk di Johnny Cash con le soluzioni melodiche di Brian Wilson è il punto attorno al quale ruota il progetto di “Hold Time”, il migliore dei lavori firmati finora da Ward, arrivato a due anni e mezzo di distanza dal già ottimo “Post-War” e a un anno dal “Volume One” del progetto She & Him, nel quale Ward duetta con l’attrice/cantante Zooey Deschanel, presente anche in “Hold Time” in due brani (Never Had Nobody Like You e Rave On). L’iniziale For Beginners è la semplicità fatta perfezione, con alcuni versi che ti si piantano in testa già dopo il primo ascolto («when you’re absolute beginners/it’s a panoramic view/from her majesty Mount Zion/and the Kingdom is for you»); To Save Me è un travolgente muro di suono, estivo e festoso, con lo zampino di Jason Lytle (Grandaddy); Epistemology un diamante contenente il punto di incontro tra anni Cinquanta e Sessanta; l’outro strumentale I’m A Fool To Want You il modo di chiudere il disco nel segno di una meravigliosa desertificazione. Ma non finisce qui: M. Ward corona un grande 2009 con la partecipazione al progetto Monsters of Folk, versione aggiornata al nuovo millennio dei supergruppi della west coast di qualche lustro fa, in cui suona e canta a fianco di Jim James (My Morning Jacket), Conor Oberst e Mike Mogis (Bright Eyes).


5 – Yo La Tengo “Popular Songs” (Matador)


yo la tengo - popular songsSono da oltre vent’anni sulla strada ma hanno la forza di realizzare uno dei migliori album della loro carriera. Ira Kaplan, Georgia Hubley e James McNew svelano il loro sapere musicale, con un’alternanza di chiari e di scuri, di esplosioni di colore e di improvvisi cali d’umore. Nenie indolenti, scariche noise, inquietanti cavalcate sghembe di velvettiana memoria, con “Popular Songs” gli Yo La Tengo realizzano una Treccani tascabile dell’indie rock americano. Periodically Triple Or Double suona come un Prince d’annata rivisitato dai Tv On The Radio; Nothing To Hide fa baciare alla francese Nada Surf e Shins; All Your Secrets è l’incontro sul ring con cui Grandaddy e Broken Social Scene si scambiano carezze anziché cazzotti; il pezzo finale, And The Glitter Is Gone, è una scorribanda di sedici minuti riempita del rumore più bello arrivato dalla East Coast negli ultimi mesi. Per chi poi non fosse stato del tutto convinto dal disco c’è stato il concerto italiano dello scorso novembre a togliere qualsiasi dubbio. Il grande impatto live, condito da una sperimentazione e da un gusto per soluzioni mai banali, che continua ad accompagnarsi amabilmente ad uno stile indie senza paragoni, perfettamente rappresentato dallo stesso Ira Kaplan, fino a dieci minuti prima del concerto al banchetto all’ingresso a stringere mani e a vendere le magliette. Eterni.




6 Gennaio 2010 alle 20:40 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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