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Lo straniero oggi

di | in: Editoriali

di Mario Mauro


“Fortunatamente” la prima giornata di sciopero nazionale degli immigrati è passata in secondo piano. Non credo che sarei ancora riuscito a sopportare la pubblica gogna che si interroga se la responsabilità della criminalità connessa al fenomeno migratorio sia imputabile alla destra o alla sinistra italiana. Secondo Berlusconi sarebbe naturalmente colpa della sinistra. Secondo Bersani, Berlusconi si sarebbe dimenticato che negli ultimi 15 anni la sinistra non ha mai governato e, pertanto, la colpa è della destra. E da qui un infinito botta e risposta destinato a fomentare le nuances delle tribune politiche.

In realtà la domanda è mal posta perché si basa sull’erroneo presupposto dell’equivalenza immigrato=criminale; un’equivalenza strumentalizzata alla ricerca di un capro espiatorio su cui addossare ogni responsabilità.

Rifuggendo da mediatici tribunali e dai loro avvocati latori di libertà, di valori e di democrazia, vorrei invece pormi degli interrogativi su chi sia oggi l’immigrato e quale ruolo abbia nello stato italiano.

Chi è. Dai recenti fatti di Rosarno, che ormai la cocaina di Morgan e l’amore patriottico del Principe per l’Italia ci hanno fatto dimenticare, sono affiorate le condizioni subumane in cui vivevano centinaia di persone: miseria, povertà, sporcizia.

Quale funzione. L’immigrato è solamente ingranaggio di un meccanismo produttivo, privo di ogni dignità umana. Si è assistito ad una forma di reificazione della persona.  In italiano volgare, schiavismo: reato che il codice penale punisce con la reclusione da otto a vent’anni e che, invece, rimane impunito.

Tale panorama, realisticamente cinico alla più diffusa morale sociale, trova una sua ancora più aberrante giustificazione se inserito nel sistema del mercato.

L’immigrazione, infatti, è uno strumento che consente il rinnovamento ed il progresso del paese ed il luogo comune che in Italia ci sia necessità di manodopera straniera è reale. E ciò non dipende solamente dal fatto che gli italiani non svolgono più determinati mestieri ma che gli immigrati svolgono gli stessi mestieri che potrebbero svolgere gli italiani: a costo zero, per l’imprenditore; ad un alto prezzo da pagare per l’immigrato il quale, accolto nel mondo del lavoro, resta culturalmente e socialmente distante.

A questo punto la domanda da porsi non riguarda la criminalità bensì l’integrazione, la cui mancanza produce tra gli effetti più tipici la criminalità: l’immigrato è messo nelle condizioni di contribuire, con un ruolo attivo, alla nuova società di appartenenza oppure deve essere messo in minoranza e ritardare così il suo percorso di inserimento nella società?

La risposta è quella appena data.

Considerando il singolo caso ed in virtù della solidarietà che anima le convinzioni del singoli, la domanda è (artificiosamente) posta per dare una risposta favorevole.

Inserendo la questione in un sistema di macro-economia, il gioco del mercato è prevaricatore.


È così stata smascherata la reale natura del problema dell’immigrazione che vestita degli abiti offerti dall’etica si è spogliata e trasformata in un gioco di costi e benefici, guidati dalla dinamica economica del profitto.

Se questa è la logica di fondo, l’integrazione è percepita non come un problema ma come un esigenza da soddisfare, solamente qualora il suo perseguimento risulterà efficiente per il mercato. Attualmente, sembra esserlo solo  per l’immigrato.

Quale, invece, il ruolo del cittadino in questa dinamica?

Affinché il sistema funzioni, senza che questioni di solidarietà sociale vi entrino, verremo collettivamente alimentati dall’atavica, ma concreta, paura dell’uomo nero.

Infatti, è realizzato un meschino e subdolo meccanismo che si auto-alimenta: l’indigenza e le condizioni igieniche malsane in cui gli immigrati vivono, aumentano la tensione e rendono più facili i comportamenti violenti; la povertà ed il miraggio di una falsa ricchezza avvicinano alla criminalità. Ciò non fa altro che alimentare la nostra paura. E la nostra paura non fa altro che rendere sempre più lontano e complesso un percorso di corretta integrazione.

La politica dell’ignoranza getta benzina sul fuoco: penso al manifesto leghista che raffigura un pellerossa e l’annesso messaggio, “loro sono stati i primi a subire l’immigrazione ed ora vivono nelle riserve”.

Da questo circolo vizioso, l’unico a guadagnarne è il mercato per il quale è più conveniente non garantire al lavoratore sfruttato il ricongiungimento con i propri famigliari; un alloggio salubre; un pasto caldo; un’adeguata educazione per i propri figli; un luogo dove professare la propria religione; cure mediche in parità di condizioni; assistenza sociale. E mi sembra che siamo ancora lontani da un minimo garantito.


Il panorama fin qui descritto non è confortante e non mi sembra che gli immigrati abbiano una forza ed un potere sociale da ipotizzare una rivoluzione da terzo stato francese.

Qualcosa, tuttavia, possiamo fare noi: sconfiggendo le ataviche paure dell’uomo nero ed iniziando a concepire un concetto di cittadinanza in continuo divenire, che trova il suo fondamento nella libertà di circolazione.

E’ proprio in questa libertà che mi sembra di scorgere l’antecedente logico per una rifondazione del concetto di cittadinanza che diventi, a sua volta, sostrato culturale in cui le radici di un’efficiente politica di integrazione possano attecchire.

L’idea tradizionale di una cittadinanza immobile, che si basa sull’unità della nazione e sul pericolo che altre culture possano mettere a rischio l’identità nazionale deve essere abbandonato, portando come conseguenze lo scoraggiamento delle politiche migratorie o l’obbligo da parte dell’immigrato di abbandonare la propria identità. Le conseguenze sono dannose in ambedue i sensi.

Diversamente, il cittadino moderno deve fare i conti con la mobilità: la possibilità di potersi spostare, fa parte del capitale umano ed è una prerogativa fondamentale. Solamente nei regimi totalitari e nei confronti di chi è ridotto in schiavitù è negata.

Ed è su queste prerogative e facoltà che deve affrontarsi il problema del rapporto cittadinanza-immigrazione, le quali costituiscono il fondamento comune. In una nazione convivono diverse etnie, ognuna con le proprie tradizioni e culture, ognuna composte da diverse persone, molte delle quali alla ricerca di fortuna e con la volontà di rimanere a lungo nel paese ospitante, se non, a volte, col desiderio di veder crescere lì anche i propri discendenti.

Siamo in un momento di transizione in cui immigrato e cittadino si scontrano: dobbiamo avere la forza di abbandonare una nozione monolitica di cittadinanza ed iniziare collettivamente una rifondazione del concetto, che si basi sulla complessità che caratterizza la società odierna e che, allo stesso tempo, valorizzi le singole identità e culture. Fondendosi, ma non confondendosi.

Lo straniero non è un pericolo ma un possibile arricchimento, in tutti i sensi.




3 Marzo 2010 alle 12:08 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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