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Alessandro Grazian @ Brevevita, Centobuchi (AP) – 25.03.10

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Non è un grande comunicatore, Alessandro Grazian, piuttosto impacciato, non un grande oratore. E  proprio per questo sa il fatto suo. Il viso pulito e l’aspetto giovane nascondono la sua età da trentenne, e la profondità della sua voce calda crea davanti alla gente un essere vago e indefinito, sicuramente indecifrabile per gran parte del pubblico. A chi non lo conosce Grazian fa uno strano effetto. Il suo atteggiamente da bohemienne è indubbiamente affascinante, e il modo in cui si presta al gioco del canto ha il ricordo di un modello cantautorale a cui il pubblico italiano si concede sempre meno. La forma della parola, l’eleganza del significato, la discrezione di un comportamento equilibrato. Per tutto ciò piace, perchè si distacca da ogni bruttura, e con la grazia del miglior chansonnier si ferma nel passato di una foto ingiallita. E canta.

La novità che questa sera Grazian porta al Brevevita è la presenza di Giulia Bari al violino. Alla loro prima volta insieme, i due inaugurano una nuova collaborazione musicale per il musicista padovano, che nella sua carriera si è sempre contornato di amici impeccabili nei loro accompagnamenti strumentali: dai fiati di Enrico Gabrielli al violino di Nicola Manzan, le scelte dei musicisti accompagnatori nei suoi dischi hanno avuto sempre un ruolo fondamentale. La continua volontà di affermazione come musicista, prima che paroliere, è stato d’altronde un piglio costante dei suoi lavori e sempre crescente con le varie prove discografiche, fino ai numerosi momenti orchestrali di un album come “Indossai” (2008).

Quando Grazian inizia a cantare, dalla bellezza antica delle sue canzoni esce fuori un miscuglio di sensazioni che rendona l’aria del Brevevita un piccolo circo di sentimenti inattesi. Suoni, respiri, dettagli di sorrisi. Le parole si appoggiano pesanti, col narcisismo piacevole che hanno, capaci di alternarsi tra i momenti passionali di un arpeggio e gli incazzi inesplosi di un trentenne moderno. Da “Ballata” a “Fiaba rossa”, tutta la tradizione cantautorale a cui Grazian si ispira riempie di riferimenti le sue parole: Endrigo, Leo Ferrè e la scuola genovese di Tenco e Umberto Bindi (quest’ultimo in particolare, che con la sua melodia elegante si affaccia sulla splendida versione di “E’ vero”). Inoltre la tradizione francese, indubbiamente viva nella musica del padovano e dimostrata con “Sainte Epine”, filastrocca baldanzosa tra Gainsbourg e Louis Aragon.

Le canzoni si susseguono col peso della loro bella incapacità a lasciarsi ricordare al primo giro. Canzoni dall’aspetto non propriamente pop e forse per questo difettose al primo ascolto. Ricordo un’intervista in cui lo stesso Grazian disse di aver subito moltissime influenze musicali e di essersene adattato nel corso degli anni, ma gli espedienti pop sono stati quelli da cui si è sempre sentito più distante. E forse è così. Piuttosto, dalla leggerezza dei suoi versi, escono fuori lontani rimandi ad un certo esistenzialismo grunge. I reading di Emidio Clementi in “A San Pietroburgo” hanno la perfetta riuscita di mantenere entro i canoni estetici del padovano, gli effetti tempestosi di una ricerca alternativa e, nonostante l’apparente distacco narcisista, impegnata. Infine gli arrangiamenti orchestrali che, oltre ai grandi compositori cinematografici, trovano un probabile rimando nelle coralità bandistiche e nella teatralità più fiabesca di Capossela. Tutto ciò si concentra nei suoi racconti, evocativi, piacevolissimi anche questa sera.

E mentre Grazian canta, dietro di lui lo schermo del Brevevita proietta fotoromanzi e pezzi di film. E se sei un cantante e passi da qui, può andarti bene o può andarti male. Nel senso che puoi trovarti coinvolto nel momento di una scopata esageratamente violenta che viene proiettata alle tue spalle (tipo lui che scopa senza grazia lei che senza grazia altrettanto mima con la bocca quanto manchino di grazia i due). O magari finisce che alle tue spalle appaiono pezzi di “C’era una volta in America”. Cosa che succede con Grazian. Dice che questo è un film tra i suoi preferiti, almeno prima che lo doppiassero per la seconda volta: «senza la voce di Amendola per De Niro, il film sembra un pò una fiction».

Le poche digressioni a cui si concede lasciano presto spazio alla narrazione discreta di amori consumati, libri ingialliti, seduzioni irrisolte dell’elemento femminile. Il bel canto di Grazian abbandona raramente il sapore antico della sua opera. Forse solo con “Incensatevi” si passa ad una impronta più spinta, un pugno di forza che lascia per un attimo gli anni sessanta svegliando il pubblico con «una delle mie quattro canzoni rock».

Il finale è quello che non ti aspetti, se canta “Fiore non sentirti sola”, bellissima reinterpretazione del pezzo di Fiumani estratta da “Il Dono” (2008), album omaggio ai Diaframma, ed una inaspettata “New York Conversation” di Lou Reed, «per far vedere che» dice ridendo «dopo tutte queste canzoni in italiano, anch’io sono capace di supportare la causa straniera».




6 Aprile 2010 alle 12:38 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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