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Band of Horses “Infinite Arms”

di | in: Recensioni


Etichetta: Fat Possum / Columbia
Brani: Factory / Compliments / Laredo / Blue Beard / On My Way Back Home / Infinite Arms / Dilly / Evening Kitchen / Older / For Annabelle / Northwest Apartment / Neighbor


I Band of Horses hanno finito la benzina. La grande speranza dell’indie-rock del nord-ovest americano, che con l’esordio “Everything All The Time” aveva fatto gridare al miracolo per quelle cavalcate sentimentali, per quei rapimenti elettrici nei quali, tra magnifiche linee di chitarre, si incastonava magicamente la voce inconfondibile di Ben Bridwell, e che con il secondo “Cease To Begin” aveva solo parzialmente confermato le attese, adagiandosi sulla fortunata formula del predecessore, inciampa con il nuovo “Infinite Arms”. Il terzo album è sovente il più difficile e i Band of Horses fanno davvero poco per scansare i rischi del tonfo. Vero è che della formazione che registrò “Everything All The Time” è rimasto il solo Ben Bridwell, che tra l’altro stavolta ha lasciato che a comporre i brani fossero anche gli altri Horses, Bill Reynolds, Ryan Monroe e Tyler Ramsey, ma, se in quarantacinque minuti solo l’opener Factory si fa carico di qualche spunto interessante con la sua orchestralità forse pacchiana ma senza dubbio coinvolgente, il risultato è davvero troppo poco per una band così (indie) acclamata. Il cuore di “Infinite Arms” è una pappa sentimentaloide che finisce per diventare stucchevole già dopo pochi ascolti, quando la ripetitività di certe soluzioni schiaccia sotto il peso della noia l’iniziale curiosità. Laredo e On My Way Back Home sono road-songs fin troppo convenzionali, Evening Kitchen e For Annabelle ballate senza mordente. Da salvare, onestamente, c’è poco: oltre alla già citata Factory, gli spazi che si aprono dentro la title-track o il ritornello di Older («and after all my plans/they melt into the sand/you will be there on my mind through all/don’t want to under stand why you never get older») che, pur non essendo stato vergato dal più fine dei poeti, è piacevole nel suo impasto vocale west coast.
Certo, chi scopre i Band of Horses con “Infinite Arms” subirà il fascino delle reminiscenze younghiane assorbite dall’acidità e iniettate di pathos, con l’aggiunta di arrangiamenti mai puliti come stavolta, ma chi ricorda l’ossigeno che arrivava da “Everything All The Time” non potrà che storcere il naso in quest’aria stantia e persino provare fastidio di fronte alle chitarre inutilmente pese di Northwest Apartment. Il fatto che il disco sia quello del passaggio dalla Sub Pop, storica label di Seattle che ha lanciato la band nel 2006, ad una major, è solo un dettaglio. I Band of Horses del 2010 non sono più trascinanti, solo queruli e a conti fatti vicini a tutte quelle band di cui non sentiamo troppo il bisogno.





31 Maggio 2010 alle 18:15 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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