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The Black Keys “Brothers”

di | in: in Vetrina, Recensioni

Brothers The Black Keys


Etichetta: V2
Brani: Everlasting Light / Next Girl / Tighten Up / Howlin’ For You / She’s Long Gone / Black Mud / The Only One / Too Afraid To Love You / Ten Cent Pistol /Sinister Kid / The Go Getter / I’m Not The One / Unknown Brother / Never Gonna Give You Up / These Days
Produttori: The Black Keys & Mark Neill


Se avete messo da parte degli spiccioli da spendere al negozio di dischi e di dischi potete comprarne uno solo perché gli spiccioli son pochi, allora eccolo qua: il disco che dovete comprare è “Brothers”, l’ultima fatica firmata Black Keys.    
I ragazzi di Akron sono scatenati. Nell’ultimo anno hanno fatto uscire il pazzesco album a nome Blakroc, progetto a metà strada tra blues e hip-hop old style che ospitava, tra gli altri, RZA e Mos Def, il disco solista di Dan Auerbach e il disco di Patrick Carney con la side-band Drummer, composta da cinque batteristi dell’Ohio alle prese con diversi strumenti. Ora tornano alla sigla madre e quello che consegnano alle nostre orecchie è davvero un meraviglioso sentire.
Nel lavoro precedente, il bestseller “Attack & Release”, il duo Auerbach/Carney aveva già trovato la formula magica per entrare nelle pagine da ricordare del rock recente, ma con “Brothers” è riuscito a superarsi, arricchendo la ricetta di casa con riferimenti soul, r’n’b e funk sparsi ovunque a piene mani. La novità è subito chiara, se mi passate il gioco di parole: così black i Black Keys non erano mai stati e l’incontro tra la classicità hard blues e i bollori sexy di scuola Motown è una miscela esplosiva.           
I Black Keys sembrano aver appena parcheggiato di fianco allo scalcagnato playground di un ghetto nero d’America e, scesi dal loro rock-furgone, sembrano attaccare la spina e suonare per qualche decina di spostati e perdigiorno in acconciatura afro accorsi a muovere il culo a ridosso degli ampli.
La scaletta mantiene un livello altissimo per cinquantacinque minuti. Voce da urlatore blues filtrata dall’eco, chitarrone mastodontico e batteria pestante: lo schema di base è sempre lo stesso e semplificare così la musica dei Black Keys sarebbe oltremodo ingeneroso se non si annotassero le soluzioni diverse, l’inventiva, il gusto per la trovata più fulminante, mai per quella più ovvia, che accompagnano ognuno dei quindici brani. Auerbach e Carney devono aver imparato due o tre cosucce da Danger Mouse, che ha prodotto “Attack & Release“ e che su “Brothers” si è limitato a manipolare la sola Tighten Up, non a caso la traccia più fighetta. La chitarra di Auerbach gira e rigira su se stessa in riff che suonano vecchi di almeno quarant’anni eppure ogni volta sorprendenti, arrotolati su note di piano spiazzanti, distorsioni a nastro, drumming fatto di stomp e frustate. Amplessi soul si rincorrono per tutto il disco, con il fantasma di Jimi Hendrix che fa capolino qua e là a dare la sua benedizione.
L’uno-due iniziale lascia sbalorditi. Everlasting Light, con il falsetto di Auerbach, il fuzz che scalda subito la temperatura, la ritmica martellante, e Next Girl, con strofe ancheggianti e sexy e un ritornello monumentale, sono il salvacondotto per il piacere di “Brothers”. Howlin’ For You è un talkin’ blues saturo e appiccicoso che si apre nel finale in un gioco di prestigio con una tastiera straniante, She’s Long Gone un blues disossato, Black Mud un interludio strumentale tremendamente melmoso.
Il falsetto ritorna nell’abbandono amoroso e torrido di The Only One, altro potenziale singolo dopo Tighten Up. Il country western iniettato di tequila di Too Afraid To Love You, il funk di Sinister Kid, il trip californiano annebbiato dal fumo di The Go Getter, il commovente quadro familiare di Unknown Brother sono altri tasselli di un quadro fatto di sudore e sete.
L’amore la fa da padrone nei testi, specie nella sua gradazione più rude, come in Next Girl («my next girl will be nothing like my ex girl/I made mistakes back then I’ll never do it again») e nel manifesto di maleducazione sentimentale I’m Not The One («all these years I’m just trying to warn you/you’d do good to move on/no it won’t hurt me none/cause I’m not the one/no I’m not the one/you wanted it all but I’ll give you none»). E in questo acquitrino di cuori corazzati le due tracce finali sembrano carezze. Prima c’è la cover dell’anno, Never Gonna Give You Up, un pezzo del 1968 firmato Jerry Butler, che i Black Keys ricompongono spalmandoci sopra due o tre strati ben compatti di saturazione e con cui annientano ogni possibile residua resistenza. In chiusura, These Days, un ballata in cui si inseriscono elementi di memoria più che esatti («the little house on Ellis Drive/is where I felt most alive/the oak tree covered that old Ford/I miss it Lord, I miss it Lord») e disillusioni letteralmente accecanti («wasted times and broken dreams/violent colors so obscene/it’s all I see these days»), ideale seguito delle pagine più morbide degli Stones prima e dei Black Crowes poi. Il fatto che questo pezzo – e insieme ad esso altri nove quindicesimi dell’album – sia stato registrato ai Muscle Shoals Sound, leggendari studi dell’Alabama dove sono passati gli Stones, gli Allman Brothers, Wilson Pickett, appare logico. In quella solitudine Auerbach e Carney hanno registrato un disco ad altissima godibilità, travolgente e a tratti irresistibile, che tradisce il loro immenso amore per il vintage e per un Paese che continuano a cantare riaggiornando la vecchia lingua dei bluesman e che si candida ad essere uno dei migliori titoli alla fine di questo strano 2010, apatico per i primi mesi ed ora, improvvisamente, diventato scoppiettante.




31 Maggio 2010 alle 17:57 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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