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“Il responsabile delle risorse umane” di Eran Riklis

di | in: Primo Piano, Recensioni


Road movie sgangherato che, partendo da Israele e arrivando ad una Romania dimenticata dalla civiltà, racconta la storia della salma di Yulia, operaia rimasta uccisa in un attentato suicida a Gerusalemme, che il responsabile delle risorse umane della fabbrica è incaricato di riportare a casa. Tratto da un fortunato romanzo di Abraham B. Yehoshua (edito in Italia da Einaudi), è il vincitore del Premio del Pubblico all’ultimo Festival di Locarno nonché candidato israeliano all’Oscar 2011 per il miglior film straniero.


Il garbo con cui la vicenda è trattata è, al tempo stesso, il punto di forza e la debolezza del film. Se da un lato infatti la leggerezza dei toni evita di appesantire una pellicola che, tra temi come morte, immigrazione, sradicamento, legami familiari infelici, rischiava di diventare un polpettone melenso, dall’altro non permette al film di sollevarsi dalla superficie del racconto: la tanta narrazione, le avventure tragicomiche dei protagonisti, l’equilibrato mix di battute e silenzi, le riuscite figure di contorno rendono la trama densa ma l’introspezione è, in ogni momento, più evocata che mostrata e le varie dinamiche tra i personaggi restano inadeguatamente indagate, quando non propriamente irrisolte (tra queste ultime rientrano sicuramente i rapporti – tutt’altro che secondari nello sviluppo del plot – tra il responsabile delle risorse umane e la vedova a capo della fabbrica e tra lo stesso responsabile e sua moglie).
La neve dona un senso di pace. Alcuni sguardi del protagonista Mark Ivanir e del giovane Noah Silver lasciano il segno più di un dialogo ben scritto. Il vecchio furgoncino che taglia il nulla desolato e imbiancato è il miglior viatico per arrivare alla fine del deserto interiore di ciascuno.


Il film è idealmente diviso in tre parti. La prima ambientata a Gerusalemme, preparatoria e un filo titubante. Una seconda parte scoppiettante, in cui vengono introdotti elementi indiscutibilmente comici che sfiorano talvolta il grottesco senza sfociarvi apertamente; con una serie di personaggi stralunati che rimandano alla lezione dei maestri poveri Jarmusch e Kaurismäki e una serie di situazioni che richiamano – complice anche l’ambientazione in un Est Europa di dolente arretratezza – “Ogni cosa è illuminata” di Liev Schreiber. Infine una terza parte – forse la migliore perché permette al film di non declassarsi in senso moraleggiante né di scadere in direzione di una bizzarria a tutti i costi – che porta ad un finale rigoroso, fatto di un mancato funerale, battute contate ma azzeccate, pochi ma esattissimi sguardi.




9 Dicembre 2010 alle 19:04 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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