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Enimirc, il grado zero del metateatro

di | in: Primo Piano

Enimirc

MACERATA – “Un’idea del teatro si è perduta. Nella misura in cui il teatro si limita a farci penetrare nell’intimità di qualche fantoccio, e a trasformare lo spettatore in un voyeur, è logico che l’élite lo abbandoni e che le masse vadano a cercare nel cinema, nella rivista e nel circo soddisfazioni violente, capaci di non deluderle. (…) è evidente che abbiamo soprattutto bisogno di un teatro che ci svegli: nervi e cuore.” Da Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud.


Se di Enimirc, spettacolo del duo artistico I-Chen Zuffellato e Andrea Fagarazzi, messo in scena giovedì scorso in esclusiva regionale presso il Teatro Don Bosco di Macerata all’interno del progetto No Man’s Island promosso da Nessunteatro, vi aspettate che vi racconti cosa ho visto, descrivendone particolari e intrecci allora questa volta mi toccherà deludervi.

Perché posso parlarvi di quello che ho sentito, dell’emozione e dello straniamento consapevole cui il mio corpo è stato oggetto arrendevole. Perché Enimirc non è uno spettacolo da guardare in poltrona. E non è nemmeno una rappresentazione che richiama solamente la necessità della vicinanza tra pubblico e attori come accade per il teatro dei Motus.

Enimirc è mistura, è commistione in cui ad abbattersi non è semplicemente la quarta parete ma persino il pre-concetto che è alla base dell’assistere ad uno spettacolo.   

Lo spettatore sta allo spettacolo come l’attore sta allo spettatore. I termini di questa proporzione si intrecciano tanto da non riuscire più a rilevarne l’autonomia.

Tra il pubblico in attesa di varcare la soglia della sala si aggirano interessati i due performer. Si mischiano alla gente ma non passano inosservati. Si riconoscono, non fosse altro per la serietà e la curiosità nello scrutare tra la folla raggruppata in capannelli. Cortesemente chiedono a qualcuno di seguirli in sala, prima degli altri. È qui che inizia lo spettacolo in verità. La miccia emotiva inizia ad accendersi e man mano che i tempi di attesa si allungano si accorcia lo stoppino. Radunati gli eletti e lasciatisi accomodare tra il suono registrato di un vociare di gente, come in un esperimento di psicologia sociale relativo alle dinamiche di gruppo, si innesca un solidale comunicare, l’esigenza di farsi unione di fronte a sessanta minuti di destino oscuro e comune. Ma Enimirc non cerca compattezza, sfugge alla calda bambagia della gruppalità.

Con cura e attenzione a turno veniamo bendati tutti. Ci si chiede di interrompere il dialogo tra di noi.

Non so dire quando è entrato in sala il restante pubblico. So che quell’attesa seduta in poltrona nel buio completo ha abituato gradualmente il mio corpo al silenzio del senso più usato. L’isolamento si è fatto triplice. Non vedevo, non comunicavo, non potevo percepire la comunicazione di qualcun altro del gruppo di eletti. In breve tempo anche il mio volto ha smesso di appartenermi; mi è stata calzata una maschera di cui non conoscevo le linee. Una voce mi dice di alzarmi. Mi cinge in una stretta rassicurante e mi accompagna verso il palco, facendo del mio passo il suo per ognuno dei cinque gradini. Se prima mi ero confrontata con il buio e con la perdita della vista ma comunque avevo potuto mantenere la tranquilla postura assunta precedentemente in poltrona, ora ho dovuto avere a che fare con il coordinare i movimenti del mio corpo affidandomi ad un performer che neppure potevo guardare negli occhi. Non solo, ma giunta sul palco sono stata abbandonata nel buio in un luogo a me sconosciuto. Uno spazio ovattato sebbene ampio in cui potevo percepire gli spostamenti e i movimenti vicini come molecole d’aria che si spingono in sciame attorno alla mia solidità.  

Mi si chiede di aspettare lì, ferma. La difficoltà risiede ora nel senso dell’equilibrio. Per quanto poco o nulla centri con la vista il mio corpo ondeggia impercettibilmente ma in maniera sensibile.

Avverto che anche gli altri sono sul palco con me. Avverto la vicinanza e i respiri, avverto presenze nell’assenza. Vengo dirottata altrove, sollevata, posta su un tavolo, distesa. Devo rimanere immobile per lungo tempo mi si dice. Qualcuno nel frattempo tasta il mio volto che mio non è e sento che lo studia. Mi è accanto, percepisco il rumore della punta della penna su un foglio, il suo respiro cadenzato.

Non ricordo cosa dice la voce registrata. Sento solo il fremito del mio corpo, che condannato all’immobilità di tanto in tanto si prende i suoi spazi in piccoli sobbalzi nervosi. Qualcuno dice a gran voce di aver paura, di sentirsi violento.

Appena inizio a rilassare le membra vengo nuovamente sollevata e portata al centro del palco. Mi si chiede questa volta di contare fino a trenta e di lasciarmi cadere lentamente assumendo la postura di Lady D morta. Il tempo è poco, e nessuno sa quale possa essere la postura da cadavere di qualcuno che si schianta in auto ad elevata velocità. Non è importante. Ciò che conta è seguire l’immaginario della condizione di morte. Lentamente scendo verso terra. Mi sto muovendo al buio cercando di rappresentare il mio rappresentato di morte. Assieme a me cadono altri corpi, lo avverto. Mi abbandono all’essere trascinata per le braccia fin quando non mi si chiede di verticalizzarmi. Veniamo allineati, accanto a me altre persone, li percepisco perché posso toccare con le mie braccia le loro.  Mi viene versato sulle mani un composto, una crema e mi viene consigliato di spalmarla molto a lungo. Non ne posso sentire l’odore, posso solo eseguire l’ordine sebbene non sappia quanto tempo contempli quel molto a lungo. Allargando appena le braccia sento che vicino qualcun altro compie la medesima azione. Pian piano vengo sottratta a quel contatto rassicurante che avrebbe definito i tempi del mio sfregamento. Mi fermo quando penso che basti.

Lo scenario cambia. Non c’è più chi mi tocca un braccio e mi sussurra azioni da compiere. Ora una voce dice quello che dobbiamo fare e vale per tutti. Quel senso di elezione viene perso. Siamo massa consapevole di esserlo, ridotti alle stesse azioni, uguali, acritiche.

È un interrogatorio in cui mostrati i profili sinistro e destro si procede a domande da terzo grado. Il nome, la data di nascita. Un corpo informe è il nostro che dalle voci ammassate e sovrapposte ci assicura una certa privacy. Si, privacy perché non so chi risponde alle domande oltre me e non posso vederne il volto ne ricordarne alcunché. E chi è in sala non può distinguere le voci, i volti, le maschere i corpi. Questo consente di potersi esprimere in sincerità, perché nel gridare le risposte c’è comunque silenzio. Le domande si fanno intime, private eppure le risposte possono essere sincere. “Hai mai desiderato la morte di qualcuno?”, “Hai mai stuprato qualcuno? Non in termini sessuali”, “Pensi che in questo spettacolo ci sia libertà di espressione?”. Su quest’ultima domanda in cui i Si e i No si sovrappongono all’unisono, veniamo spinti all’interno di una manifestazione. Il clima si fa politico, febbricitante. Ci si spinge, si è corpo unico, in balia di una forza esterna che convoglia e preme. Un giro, due giri, tre giri di nastro adesivo attorno a noi. Lo spazio si riduce, la relazione è intima. Quel contatto desiderato a lungo ora è quasi invadente seppur un che di rassicurante lo mantenga. I bassi d’improvviso pompano, di nuovo la scenografia cambia, dalla piazza alla disco. Ci si chiede di ballare sul posto, il nastro viene tagliato. Ad ogni movimento strappa un po’ dall’indumento fin quando non siamo finalmente liberi. Rimaniamo comunque vicini. Si distende l’atmosfera in quella adiacenza rassicurante ma che ci appare come libera scelta dal momento che non siamo stretti in un legame forzato. La musica si ferma. Dobbiamo andare. Lo stesso abbraccio iniziale mi cinge e a passi rapidi mi conduce giù dal palco, alla poltrona. Mi toglie la maschera, poi la benda. Rimango ancora un attimo con gli occhi chiusi. Quando li riapro ho davanti lo sguardo di contatto di Andrea Fagarazzi. Accanto a me spettatori che sono rimasti seduti a godersi i nostri piccoli movimenti. Sulle file esterne i volti del mio gruppo di eletti. Ci servono da bere, poi si allontanano e spariscono dietro le quinte.

Ora torniamo spettatori. Lo schermo mette in scena il nostro spettacolo in cui delitti e crimini si consumano senza alcuna consapevolezza, dove osservatore e osservato sono palindromi come crimine, allo specchio enimirc.  La drammaturgia si è fatta spettatore.




5 Febbraio 2011 alle 21:01 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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