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The Decemberists “The King Is Dead”

di | in: Primo Piano, Recensioni


Etichetta: Capitol
Brani: Don’t Carry It All / Calamity Song / Rise To Me /Rox In The Box / January Hymn / Down By The Water / All Arise! / June Hymn / This Is Why We Fight / Dear Avery


Dopo l’ambizioso progetto “The Hazards Of Love“ i Decemberists ritornano nel segno della classicità folk-rock: “The King Is Dead”, non inganni il titolo morrisseyiano, è la quintessenza del suono a stelle e strisce di oggi, una raccolta di dieci canzoni pronte a diventare altrettanti capisaldi di quel genere che il solito originalone ha avuto il genio di chiamare americana. Abbandonata qualsiasi idea di concept, lontanissimi, vivaddio, i cerebralismi di certo folk britannico declinato al prog, Colin Meloy e compagni giocano la carta della normalità, affidandosi al purismo di chitarroni sparati negli spazi infiniti di un continente fatto per cantare i propri malesseri a cavallo di un amplificatore. Tom Petty che sale sul furgone dei R.E.M. o Neil Young che ospita nel suo studio i Grant Lee Buffalo: sono queste le libere associazioni che vengono in mente non appena partono il preciso riff di batteria e l’armonica di Don’t Carry It All. I R.E.M. del periodo “Murmur”/”Fables Of The Reconstruction”, in particolare, riecheggiano in tutti i brani, in quelli dal ritmo più sostenuto come nelle ballate. Non è un caso che Peter Buck – non esattamente il tipo di ospite che non intende lasciar traccia – presti le sue sei corde a tre brani.
Pur essendo un lavoro che fa dell’omogeneità e della continuità di ispirazione i propri punti di forza, “The King Is Dead” presenta altresì alcuni picchi che non possono non essere sottolineati. January Hymn, innanzitutto, una ballata toccante in cui la voce nasale di Meloy si adagia su un delicato arpeggio di chitarra acustica e poco più. Poi Down By The Water, in scaletta subito dopo, che è puro Neil Young, ruvido e trascinante. Infine This Is Why We Fight, un pezzo che trapana il cervello sin dal primo ascolto, invidiabile simmetria di qualità e orecchiabilità, con un occhio strizzato alle college radio degli anni Ottanta. Col ripetersi degli ascolti è però la quasi totalità dei brani a centrare un ritornello che rimane incagliato tra le nostre sinapsi e a significare l’indubbia resa melodica del disco.
Pur nella sua immediatezza, ”The King Is Dead” non è, sia chiaro, un disco ruffiano e Meloy, per risultare efficace, non rinuncia ad una letterarietà che anche stavolta partorisce versi e note che ben si accoppiano nel sogno di praterie e laghi ghiacciati, germogli e luci mattutine, in un’armonia rurale che si fa specchio dell’inconfondibile estetica del Paese più cavalcabile del mondo. Le lapidarie parole con cui il disco si apre («here we come to a turning of the season/witness to the arc towards the sun/a neighbor’s blessed burden within reason/becomes a burden borne of all and one») e quelle commoventi con cui si chiude («there are times life will rattle your bones/and will bend your limbs/but you’re still far and away the boy you’ve ever been/so you bend back and shake at the frame of the frame you made/(but don’t you shake alone)/please, Avery, come home») hanno tanto il sapore dell’Oregon (i Decemberists vengono da Portland) quanto i colori dei laghi del nord e dei campi del sud. Nel mezzo, la bellezza universale di un inno all’inverno («how I lived a childhood in snow/and all my teens in tow/stuffed in strata of clothes») che trascolora in una malinconia densa di poesia («what were the words I meant to say before she left?/when I could see her breath lead/where she was going to/maybe I should just let it be/and maybe it will all come back to me»).




6 Febbraio 2011 alle 22:34 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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