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Festa Democratica, la seconda serata è nel segno di Daniele Silvestri

di | in: Cultura e Spettacoli, Primo Piano

Daniele Silvestri

PESARO – Ci ha provato a chiudersi in se stesso, a non considerare il resto, a parcheggiare il suo disagio in un cassetto (Manifesto), ma è evidente che non gli è riuscito. Daniele Silvestri è uno dei nuovi figli della scuola cantautorale romana e come tale interiorizza per esternare ed esteriorizza per interiorizzare.

Dal 1995 anno del suo esordio al Premio Tenco, di strada ne è scorsa sotto le sue suole e difatti ieri, al palco della Festa Democratica di Pesaro, approda con la sapienza e la sicurezza di un musicista tarato.

Per colui che con Aria aveva carezzato gli spazi angusti di una cella e l’angoscia della prigionia, la location dell’ex carcere di Rocca Costanza appare quasi didascalica. Un fossato tappezzato di gente, incorniciato da una muraglia umana,

Nella nobiltà della citazione, affida le prime battute alle sempreverdi parole di Gaber, Io non mi sento italiano ed è quasi imbarazzante come un testo scritto più di dieci anni fa possa ancora dimostrare tutta la sua contemporaneità. Si parte piano, come un diesel, scalda i motori, parla ma cerca di evitare il comizio sebbene la musica tracci percorsi di indiscutibile riflessione e denuncia.

Il pubblico risponde caldo, affettuoso e metà dello show è dato da un’affluenza fuori dal comune. La formazione sul palco fa il resto: tastiera, piano, batteria, chitarre, percussioni, basso, fiati. Un gruppo affiatato e compatto che veste il ruolo con innato divertimento. Alle spalle uno schermo proietta fermo immagini, videoclip, pezzi di storia italiana sotto l’abile montaggio di Camilla Ferrari. Le tragiche immagini del 19 luglio del 1992. Caponnetto sconvolto dopo la morte di Borsellino: “ E’ finita” . E scocca l’applauso commosso.

Del vasto repertorio si attraversa ogni scompartimento; i dubbi e l’andirivieni dell’amore (Sornione, Occhi da orientale, Le cose che abbiamo in comune, Samantha, Ma che discorsi), il gioco linguistico, la mezcla culturale, il funnytime (Me fece mele la chepa, Paranza, Il mondo stretto in una mano, Salirò), la prima linea della battaglia (L’appello, Il mio nemico, Precario è il mondo, Questo Paese, S.C.O.T.C.H.).

Abilissimo nel tenere il palco per due ore abbondanti e nell’abbattere la quarta parete, Silvestri attraversa la sua carriera musicale e nel farlo dimostra come la sua penna sia sempre stata imbevuta nell’inchiostro della contemporaneità rifiutando veli e occultamenti, facendo dell’impegno politico, sociale, sentimentale, l’unico modo d’essere fedele a se stesso.

Immancabile la richiesta finale. Il Silvestri cubano è tappa obbligatoria ed allora Cohiba è inno formula di chiusura di ogni suo concerto. Unisono di voci sul solito Venceremos, adelante e l’atmosfera si scalda. Si rinnova la consueta magia, sortilegio del concerto perfetto: quello di rendere gli spettatori astanti, corpo unico e compatto. Ma questa volta tale sensazione è diretta conseguenza dello scambio di cui sono protagonisti i musicisti sul palcoscenico. Si gioca, si partecipa, si improvvisa, ci si scambia di ruolo.

Il fuoco d’artificio della batteria, la tastiera luogo d’incontro di quattro mani, ukulele e atmosfera glocal.


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29 Agosto 2011 alle 21:40 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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