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Biennale di Teatro: Grimmless, le fiabe non esistono

di | in: Primo Piano, Recensioni

Anna Gualdo, ph Mirella Caldarone

La rassegna Young Italian Brunch ospita la poesia cruda di Ricci-Forte


VENEZIA, 2011-10-15 – Venezia, esterno giorno, aria pungente. Interno. Teatro Fondamenta Nuove, pressati nell’attesa di varcare la soglia della sala.

Ci siamo. A sfidare il denso estremo della patina fumosa che avvolge la sala e pian piano va a dissolversi, ci siamo anche noi. Siamo in una delle innumerevoli foto scattate da Andrea Pizzalis e Valentina Beotti. Tra una boccata e l’altra dei fotografi, aria finta tirata su dal tubo da sub, interessante tramite tra dentro e fuori la pantalassa reale/immaginario, ci siamo anche noi, pubblico in sala; madre, padre, fratello, amico, amante ed altri intricati giri di parentele ed amicizie di due sposi il giorno delle loro nozze. Ci siamo anche noi perché quel che si racconta, ci è stato raccontato. Tutti, nessuna eccezione, abbiamo attraversato il mondo di favola fino a che…fino a che i racconti sono stati abbattuti con lo stesso colpo di pistola con cui Giuseppe Sartori pone fine al circolo infinito di immagini catturate dalla macchina fotografica. Immortalare il nostro infinito flusso di finzioni. Finzioni non come simulare, mentire ma come immaginare l’altro da sé, l’altro dal reale.

Mister Grimm è morto. Ora siamo senza casa. Il mondo patinato e colorato di fiaba dove Madre Natura partoriva i suoi frutti perfetti è divenuto luogo dove “tronchi e foglie sudano ruggine” e dove la strada di casa è persa e non c’è briciola che segni il percorso per ritrovarla.

Lampadari accesi di luce fioca, fragili nelle vitree ossature, avvolti da pluriball, allungano e accorciano le distanze dal suolo del palcoscenico appesi a carrucole. A destra cinque file verticali di sei lampade a ioduri metallici che potenziano nel tempo la propria intensità luminosa. Cinque trolley rigidi diversamente colorati. La solita impalcatura vuota, spoglia, nuda di orpelli è il teatro. “Perché hai chiuso la chat? Per guardarti meglio”, “C’era una volta un Paese a forma di scarpa. Ora non c’è più”. Riempiti così, invasi da mondi contaminati dove il linguaggio di fiaba è immerso nella realtà mediatica del quotidiano. Dove la morte clinica diviene il nuovo status su Facebook. La casa di Barbie/Hansel e Gretel è scena di un delitto. Non v’è Ken, ma solo Barbie, personaggi primi, ribalta della popolarità, prime donne tutte uguali ad impersonare attori della scena del crimine, ad intessere relazioni morbose ed ambigue. La nuova fiaba è nella realtà romanzata dello studio di Porta a Porta. Delitti atroci, immagini da splatter narrate e gridate con la foga dell’ultimo horror bioptizzato in seconda serata da un gruppo di esperti alla CSI. La stessa bocca piena di quell’orrore si riempie di panna spray in quella danza macabramente comica che si balla su “Lasciati baciare col letkiss”.

Parole gridate, parole cantate. Ma “Le parole sono debiti”, debiti esibiti, raccolti, contratti lungo la striscia continua di non senso che è l’incedere umano. Uno solo il modo per non accumulare debiti. Parlare poco così da essere dimenticati. Restare soli così da non deludere nessuno. Essere catalettici così da rendersi immuni agli stimoli, così da sentire senza ascoltare. Queste le parole di Giuseppe Sartori. Ed in questo rifugio dalla vita si precipita al suolo, non morti ma dormienti. Ma non c’è tempo per l’attesa, non c’è modo di rimanere immuni all’intorno matematico di vita e di morte, di finzione e di mediazione, di esibizione virtuale e intima solitudine. Non c’è tempo e così l’intero gruppo solleva il corpo di Giuseppe, lo tira su di peso, lo sbalza qui e lì sul palco, mucchio di carne ed ossa e fragilità annesse. Nel turbine asfissiate di fingere la vita, il tempo fisiologico della resa è solo una parentesi turbata dall’insistenza esterna, tra una scopata e un ballo, tra un giro di chat e uno d’alcol.

E se il rumore della vita diviene tanto più assordante quanto più si cerca di far tacere il proprio deficit, allora tanto più gridato sarà il dolore e l’inadeguatezza dello stare al mondo quando, a fiabe morte, il fardello-valigia del proprio passato diviene troppo pesante da trasportare passo dopo passo. Con l’infanzia bisogna farci i conti, prima o dopo. Quelle stesse cose di cui ci siamo nutriti, genuine e sazianti, tanto naturali da essere partorite da padri e madri bulimici come alberi che generano mele, divengono proiettili da lanciare contro riti consumati e triti, ingiurie deglutite, delitti dell’anima, mancanze affettive. Contro le inadeguatezze. Contro. Quell’immagine di sé, fissa, restia ad ogni ribellione, ormai radicata al passato come un tronco agghindato al volere del decoratore è corpo da segare, sgretolare, affettare, rendere polvere. Il passo seguente è una semi confessione. Un affermare per negazioni. Non è vero che. È falso che. Il monologo di Valentina Beotti scandisce, nella perversione della bugia, la verità del suo essere. Ed è subito irrisione e derisione collettiva. Dinanzi alla negazione di evidenti e scomode verità, vergognose perché segnano lati scoperti e debolezze, carenze affettive e ferite aperte, il gruppo, serie di individui privi di individualità, il cui volto è unico, medesima maschera ad annullare singolarità, non può che ridere e infierire. Una volta che ci si confessa, sia pure attraverso escamotage retorici di preterizione, non si ha più la possibilità del mascheramento. E nel gruppo-branco non c’è segreto e la parola bisbigliata all’orecchio in confidenza non può rimanere tale perché si converte in dominio pubblico. Persino le regole di un gioco collettivo come è Lo schiaffo del soldato non valgono per lei. Ed è attraverso la trappola del gioco che Anna viene presa e data in pasto al branco, umiliata nelle proprie debolezze. E non può nulla nemmeno lo spettatore invitato sul palco e incoronato da Principe Azzurro. “Non esistono Principi. E se esistono non servono, rimangono lì a guardare”. Il gruppo non è alieno, non è altro. La violenza non è filmica, non è finta. È ingrediente cui siamo abituati, farina del nostro pane quotidiano.

L’ultima entità monologante è quella di Anna Terio. Neve, come Biancaneve. “Sono morta tantissime volte. La prima quando ho imparato a fare il nodo alle scarpe da sola. Nessuno dei due mi ha insegnato”. Ad ogni passo vacillante uno dei sette nani ha saputo sorreggerla. Ad ogni domanda fatta, la bellezza di avere una risposta da qualcuno. É una Neve che alterna vita e morte sul suo letto di mele, una Neve che in pieno stile Ricci-Forte è costretta al movimento su una superficie mobile e come tale precaria. E la morte è qualcosa di più complesso dell’interruzione della vita. “Quando qualcuno non c’è più non inizio con c’era una volta. E se inizi così pensi a te, a quello che immaginavi tu da piccolo”. Impossibile non collegare questa affermazione con quella d’apertura e di chiusura dello spettacolo: C’era una volta un Paese a forma di scarpa. Ora non c’è più. I trolley/memoria storica allineati a formare una bara coperta dalla bandiera italiana. I cinque performer in piedi asciugano le lacrime. Quell’Italia e quell’infanzia è morta? No, non è mai esistita se non nella fervida immaginazione. I fazzoletti non asciugano lacrime ma coprono d’oro, i gloriosi tempi d’oro, quelli dell’immaginario. I corpi si denudano gradualmente di abiti e strofinandosi vicendevolmente diventano statue dorate. I lampadari elevati all’inizio, precipitano ora al suolo, neve cade dall’alto e rende vacillante ogni verticalità. Nello spasmo finale di musica, rumori e corse i corpi dorati si vestono di abiti enormi, panni d’altri, finti, teatrali, privi d’aderenza col corpo, pronti nuovamente a lasciare nuda la realtà. Si ammassano al suolo, sospesi in morti apparenti per poi tornare a nuova vita perchè il tempo della fine non è quello. Ma c’è un tempo per finire? La musica viene interrotta. La corrente viene staccata. Buio.






17 Ottobre 2011 alle 21:49 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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