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Nella Capitale giungono i “Segni” di tre giovani artisti marchigiani

di | in: Primo Piano, Recensioni

Gloria Cervigni

Cervigni, Chavar e Cingolani fino al 31 maggio alla galleria “Come se”


ROMA – Nello spazio di un triangolo, si svolge quotidianamente il nostro rapporto tra pensiero, espessione e oggetto. Sostanzialmente, esprimiamo attraverso segni, il significato di qualcosa che abbia un referente più o meno oggettuale.

Il segno, dunque, non è semplicemente una traccia priva di significazione ma essa è emblema di significato, struttura più o meno definitiva di un processo di comunicazione sintetica: attraverso un tratto, a fronte di un codice condiviso, posso richiamare alla mente un insieme enorme di significati.

Se quindi ci ritroviamo a girovagare per le strade del quartiere San Lorenzo a Roma, alla ricerca della Galleria “Come se” dove si tiene la mostra d’arte contemporanea “Segni” è, in primo luogo per indagare il senso primo della traccia, per capire se c’è fondamento nell’affermazione di Apollinaire “Si può dire che la geometria è per le arti plastiche ciò che la grammatica è per l’arte dello scrittore”. In secondo luogo perché Gloria Cervigni (scultrice), Hernàn Chavar (pittore) e Marco Cingolani (scultore) sono tre artisti marchigiani approdati nel cuore della capitale.

Il perché mi riferisca ad una geometria di fondo è basilare. Essenzialmente perché la galleria “Come Se” di Rosetta Angelini è uno spazio riservato prevalentemente all’architettura. E lo si vede subito. Nella ricerca profonda di una forma non comunemente armonica, nella rottura della linea retta come modulo di base per restituire all’ambiente il movimento. Tra geometrie “caligariane” (permettetemi il termine) e asimmetrie alla Tobias Rehberger, lo spazio ingloba senza inghiottire le opere dei tre giovani artisti.

Curata dagli architetti Michele Schiavoni e Felice Silvano, l’esposizione gioca a farsi spazio dialogico dove segni diversi si pongono in relazione stretta tra loro. Pur essendo contigui i lavori hanno modo di esprimersi in autonomia, sebbene ognuno lo faccia con il proprio organon.

Ci ritroviamo subito circondati da esseri strani, mutanti, ibridi nati tra ricalchi preistorici e fantasmagorici richiami alla Cronenberg (Gladiators). È questo il mondo di Hernàn Chavar, una sovranatura, una mistificazione dell’anima dove il segno grafico, perché di disegni si tratta, è un tratto di china semplice eppur complesso. Il segno qui è traccia primordiale e post atomica, due punti opposti di un continuum che può chiudersi in un cerchio. Sembra che tra insetti e animali degli abissi vi sia un unico fil rouge e cioè l’inumano, una natura lontana mille miglia dal somigliare all’uomo. E quasi si vira dalla paura ad una sorta di confortante pensiero: forse le mostruosità cui l’uomo ci ha abituato nella storia sono più temibili di una natura deforme. Forse il soggetto che dimentica di appartenere alla natura è semplicemente il modo che essa ha di epurarsi e rendersi ancora raccapricciosamente sana.

Quando mi rivolgo al segno scultoreo, è per necessità di una realtà tattile. L’esperienza privata di Gloria Cervigni si condensa in oggetti che divergono per fattura e che convergono per funzione. Il ferro, materiale duro eppur lavorabile, sterile, freddo e industriale, sposa la fertilità di semi e il calore e la morbidezza di cumuli di lana e gioca, al contempo, a divenire campo semantico di una sessualità che esprime il proprio essere in un rapporto tra contenente e contenuto. Una vecchia scatola personale dell’artista (Possibly maybe) dialoga con ciò che cela dentro e mima il significato ripetuto di due gusci di lumaca anch’essi contenitori di qualcosa. In questo gioco tra dentro e fuori si definisce non solo un significato simbolico ma anche uno strutturale, ossia il rapporto con lo spazio. Con “Angle Triangle” la Cervigni indaga il suo intorno, una continua gestione delle forme che vengono a crearsi tra presenza e assenza, tra vuoti e contorni di pieno.

Si lascia forse ogni impulso emotivo quando ci si volge alle opere di Marco Cingolani. Se nel suo passato la figura umana aveva avuto importanza preponderante, i nuovi lavori dell’artista maceratese si orientano alla scarnificazione della forma. Strutture longilinee, filiformi, popolano lo spazio della galleria rompendone la continuità. I suoi lavori fagocitano complessità per poi digerirla e renderla in forme semplici.

Cingolani si interroga sulla linearità del tempo (“Tempo suddiviso”), concetto questo caro al pensiero cristiano-giudaico, e la rende attraverso un fil di ferro verticale, con diametri ritmicamente differenti, che, sospeso a pochi millimetri da terra, proietta la propria ombra oscillante. Interagisce così con l’ambiente circostante e tutta la poetica dell’artista è volta a questa costante interferenza. O per mimesi o per opposizione le opere ritagliano dall’ambiente circostante la propria autonomia.

E ancora il concetto sempre caro agli amanti di complementarietà e interdipendenza in due figure verticali che armonicamente realizzano negli esatti opposti un connubio grazie al quale ognuno assume significato.

La mostra si lascia vedere, indaga il segno come mezzo e come unione di significato e significante. Della geometria a volte si fa scherno, ora imitandola ora ripudiandola ma certo con essa ci fa i conti e dalla forma essenzialmente parte e si diparte per andare oltre, dove il segno riempie quegli spazi di significanza che forse la misura non può dare.




16 Maggio 2012 alle 21:24 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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