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Noosfera Titanic di Roberto Latini, il naufragio dell’umanità sola

di | in: Cultura e Spettacoli

Roberto Latini

Nessunteatro porta al Lauro Rossi il secondo momento del progetto del Fortebraccio Teatro


MACERATA – Incagliati. Come l’inaffondabile Titanic in quell’iceberg. Col ventre metallico squarciato. Eccoci tutti, i passeggeri della vita, coloro che nella ricerca ludica del viaggio, si ritrovano a confrontarsi con il marasma della quotidianità e il dramma privato di un corpo distaccato della propria identità. Privi di rotta ma obbligati all’ordine. Eccoci tutti, naufraghi, come solo la consapevolezza può rendere. Roberto Latini ha portato Noosfera Titanic, secondo momento della sua ricerca sulla Nous-sfera, la sfera del pensiero umano, ieri sera al Lauro Rossi di Macerata all’interno della rassegna No Man’s Island dell’associazione Nessunteatro. Il secondo momento, dopo quello gustato lo scorso anno sempre per la medesima rassegna, Noosfera Lucignolo, una stessa terribile riflessione sull’uomo contemporaneo e oltre.

Uno spettacolo per pochi intimi, violento e dolce, mediato eppur senza preamboli, senza filtri. Quando si accede allo spazio ricavato sul palco stesso, Roberto Latini è già nel quadrato che delimita la scena, disteso a terra accanto a una sedia rossa arenata su una montagna di sale. Tra il pubblico e lui, il filtro di una sottile rete: eppure è una protezione inutile. La disperazione varca ogni cortina e investe lo spettatore. Prima di ascoltare una sola sillaba pronunciata da Latini, dobbiamo pazientare molto tempo. Respiro faticoso, con qualche venatura metallica, fruscii di un corpo che a fatica si trascina per terra e porta con sé qualche chicco di sale. Sgretolarsi di sabbia nel pugno stretto. Non una parola, perché nessuna parola può lavare l’essenza stessa e sporca dell’uomo.

Roberto Latini

“Rompete le righe”, sussurra e ripete come un mantra sino a gridarlo, e turba dal di dentro. Così si entra nel mondo di Latini, con un imperativo secco, con l’afflizione dell’uomo che, seduto sulla causa della propria disfatta, continua a coprirsi occhi, bocca e orecchie e ripetere di star bene, come se nulla fosse stato, a ripetere l’ordine opposto, “state”.

Ma quella montagna di sale, limite, residuo che permane anche dopo l’evaporazione delle acque, composto che brucia sulle ferite aperte, è lì, davanti a noi come a ricordarci che qualcosa è successo, che qualcosa c’è ancora. E non basta scavare con tutta la foga e la rabbia di cui si è capaci. Non basta far piovere dal fondo una pioggia di sassolini bianchi. Non basta sporcarsi, rotolarsi, creare crateri, disperdere il cumulo. Perché l’iceberg rimane sempre lì, capace di ricomporsi.

Lontano da qualsiasi anelito di speranza, Latini espone l’incomunicabilità del dolore  in un corpo che si arrotola su se stesso, in una voce nervosa e profonda, negli occhi serrati a cercare visioni extrasensoriali e poi aperti e puntati come spade su un pubblico inerme, in un testo ridotto a ritagli di frasi e ricucito da ritmi battenti. Nulla è in grado di trasmettere segnali, di ancorare al mondo. Non un telefono che invece di condurre la propria voce dall’altro capo del filo, la respinge amplificata, sola, monologante. E nemmeno un megafono che invece di potenziare, deforma e riduce la parola a stridore e grida di sirena. Davanti all’inno alla ribellione di quel “rompete le righe”, e al seguente ordine dolce, rassicurante e mistificatorio dello “stare”, un’unica terribile verità: non c’è possibilità di rispondere a quel grido di dolore, semplicemente perché non è la parola a lavarlo, non è la parola a vivificarlo.

Latini scolla alla perfezione l’essere dal proprio corpo. La carne è involucro pesante che Latini trascina a fatica, che compie azioni autonome rispetto a quelle che definiscono l’identità dell’io. La voce modulata e “metallizzata”, strozzata a spezzettare l’omogeneità del narrato, diventa emblema di una sedimentazione di incomunicabilità.

Non c’è alcuna possibilità di salvezza, nulla che possa condurre oltre la rete che divide così nettamente la scena dal pubblico. 

Eppure la parola, ma quella teatrale, torna non appena usciti a fatica dal quadrato della propria prigione interiore. E torna nelle parole di donna Elvira, colei che tradita da Don Giovanni, abbandona la vendetta e, lasciandosi trasportare dalla pietà per il seduttore, lo sollecita invano al pentimento. Solo l’amore, unico sentimento a cui aggrapparsi per superare l’odio. A questa confessione recitata incarnando la dama di Burgos, attende una maschera inquietante che osserva il tutto, a sipario aperto, dal palco centrale del primo ordine, quello delle autorità. Scelta o casualità, la cosa funziona da detonatore simbolico.

Una risata volgare e agghiacciante travolgerà anche questo ultimo disperato appello al sentimento, quasi a svilire tutto quello che non può essere mercificato. Come un moderno Sganarello, la maschera sommerge ogni anelito di ritorno all’essere umani, ciò che resta è solo l’inquietante vociare di un popolo di naufraghi.

In circa 200, di tutte le età per assistere al ritorno a Macerata di Roberto Latini, innegabilmente un poeta della contemporaneità, un resistente, uno di quelli per cui ha ancora un senso uscire da casa alle 21 con un clima pungente e dire a gran voce che no, il teatro non è morto, non ancora.




8 Febbraio 2013 alle 1:54 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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