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Bill Callahan @ Teatro Antoniano, Bologna – 18.02.14

di | in: Foto e Vignette, Recensioni

Bill Callahan (Bologna, 18.02.14 – foto www.ilmascalzone.it)

 

Dopo il set vivido e disperato di Circuit des Yeux, Bill Callahan compare senza alcun clamore e si posiziona sul fondo del palco, il più lontano possibile dal pubblico. Inizia con The Sing, un’esecuzione impeccabile, molto vicina alla versione in studio. Bill è immobile, imperscrutabile, quasi riluttante, mentre la sua voce non tradisce il minimo timore, spietata, precisa, metronomica e pura. Pioniere di una forma canzone elegante ma mai edulcorata, armato di poesia e nevrosi, umiltà e talento, capace di scarnificare temi come vita, morte, abbandono, solitudine, amore, speranza, identità con il piglio severo di chi non vuole seguaci, Bill è il cantautore di questi anni. Ad accompagnarlo Matt Kinsey alla chitarra elettrica, Jamie Zuverza al basso e Adam Jones alla batteria.
Le canzoni dell’ultimo album “Dream River” riempiono una sostanziosa porzione della scaletta: Javelin Unlanding e Ride My Arrow entrano in contatto profondo con la platea, la deliziosa Small Plane la rapisce. L’arrangiamento essenziale, l’assenza degli archi, l’intrecciarsi della doppia chitarra rendono secche e allo stesso tempo carezzevoli le composizioni. Saranno le immagini proiettate dietro i musicisti (tramonti su strade di montagna, lune nel deserto…) ma quando la musica si fa più languida (per esempio nella rarefatta One Fine Morning, giocata su un mirabile equilibrismo di toni, tra sperimentazione discreta e minimalismo roots) sembra di trovarsi in un posto con poche anime in Arizona o nello Utah, con una piccola band confidenziale ad addolcire il graffio del bourbon sulla gola.
America! è un contro-inno alla propria terra, avvelenato e saturo, mentre la cover di Please Send Me Someone To Love di Percy Mayfield è una preghiera dilatata a dismisura, una supplica blues di rallentata potenza.
Poi ci sono i due recuperi dal catalogo Smog, che coincidono con i due momenti più emozionanti del concerto. Dress Sexy at My Funeral è la dimostrazione di come sia difficile, superato il livello di guardia di emotività, considerare Bill un semplice storyteller. Dress Sexy at My Funeral è disumana nella sua bellezza fatta di ironia nera e di una permanente voglia di un abbraccio vero, è un fazzoletto nero gettato contro la gravità. Anni fa gli Smog mi avevano dato la misura del mio problema con la musica d’autore: più era intensa e più era dolente, tragica, rigorosa nella sua mestizia, più la adoravo. Oggi, a sentire Rock Bottom Riser – è il secondo recupero dal vecchio catalogo, in chiusura di serata – direttamente dalla voce del suo autore, mi rendo conto che nulla è cambiato: una canzone non è davvero una canzone se non ti stritola le viscere. Rock Bottom Riser lo fa con un arpeggio ipnotico, con pochi versi ripetuti e con un compassato baritono che sembra provenire dall’abisso della tua stessa anima.
Estraneo a qualsiasi modello precostituito dello showbiz, Bill ha mantenuto negli anni un anonimato e una ritrosia ormai proverbiali. Non ha un sito internet. Distilla con parsimonia le sue esibizioni dal vivo. Per tre lustri ha pubblicato dischi nascondendo il suo nome dietro un moniker. Unica concessione ai media, le due love story (con Cat Power e Joanna Newsom) che per qualche tempo hanno riempito i rotocalchi indie.
Negli ultimi lustri dall’America sono arrivati nuovi cantanti folk, più o meno giovani, più o meno agguerriti e più o meno infighettati, ma un concerto come questo mi dà ragione se a tutti continuo a preferire Bill Callahan, lontanissimo da tutti e lontanissimo da me, che pure ho un posto in seconda fila, immobile sul fondo del palco.

Bill Callahan Bologna 2014




25 Febbraio 2014 alle 15:48 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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