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Gabriele Lavia, “Il malato immaginario” al Teatro Lauro Rossi

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Gabriele e Lucia Lavia

MACERATA – Italo Svevo faceva confessare a Zeno che la malattia di cui egli soffriva era una convinzione con la quale si dovette confrontare sin dalla nascita. Tale certezza non si esacerbava nella sofferenza localizzata in un organo o in sintomi definiti. Essa era connaturata al soggetto: era il male di vivere. La convinzione di essere malato e la persuasione da parte della società a considerarsi sano.

È dello stesso male che è afflitto Argante, protagonista de Il malato immaginario di Molière, portato in scena dalla compagnia del maestro Gabriele Lavia martedì scorso al teatro Lauro Rossi di Macerata. La storia si sviluppa seguendo quella ambiguità di cui si fa portavoce già il titolo come sapientemente fa notare il maestro nei suoi appunti di regia. È il malato ad immaginarsi tale, o l’immaginario ad essere malato? È lungo questo sottile seppur determinante dubbio che si sbroglia l’intera vicenda di un uomo, Argante (Gabriele Lavia), che vivendo derelitto nella propria stanza ha concentrato il proprio mondo in un iter quotidiano fatto di letto, purghe, bagno, fatture da pagare al farmacista e una profonda solitudine della quale non ci si può disfare nemmeno elemosinando la presenza e l’amore di quanti vivono nella casa. Rimettendo obbedientemente la propria vita nelle mani dei gretti e cinici medici intrisi di latinorum, conduce un’esistenza marginale con la sola speranza di poter entrare nel potente circolo dei dotti maritando la propria unica figlia, Angelica (Lucia Lavia) con Tommaso Diarreus (Michele Demaria) disarmonico e poco intelligente medico novello, nonchè nipote del proprio medico curante, il professor dottor Purgone (Mauro Mandolini). La figlia però osteggia il matrimonio poiché innamorata del giovane Cleante (Andrea Macaluso).

A ruotare attorno a questo nucleo narrativo, la seconda moglie di Argante, Belinda (Giulia Galiani) che finge interesse per il marito quando invece è attratta solo dalle ricchezze che egli custodisce, il saggio fratello di Argante, Beraldo (Gianni De Lellis) che tenta di convincerlo del fatto che l’unica malattia di cui egli soffre è quella dei medici, la furba cameriera Antonietta (Barbara Begala), una sorta di servo, figura classica della Commedia Nuova di Plauto, che sbroglia l’intreccio e fa rivelare i veri volti e i biechi interessi dei personaggi.

A fare da eco al mondo interiore del protagonista è la scenografia.

Alquanto scarna, è composta in proscenio da una scrivania illuminata dalla flebile luce di una lampada, sulla quale è posato un registratore vocale, un letto spesso sfatto collocato assai distante dalla prima, al quale si oppone una luce calata dall’alto simile a quella presente nelle sale operatorie o nei manicomi, un gabinetto sul fondo della scena celato da un velo nero come quello che circonda l’intero palco. La pavimentazione si affida ad una scacchiera che si fa metafora dell’eterno gioco tra vita e morte, tra fede intesa come dogma e senso critico.

Lavia rilegge Molière e dal connubio tra moderno e contemporaneo trae una compenetrazione interessante sia in termini di lettura dell’opera che di resa visiva. Se si affida all’antico rito del Battitore per aprire la narrazione, e l’arredamento scenografico si rivela di contro contemporaneo, i costumi di Andrea Viotti si collocano in un gusto, oso dire, postcontemporaneo. Tra tube, panciotti seicenteschi e tacchi di cui veste la classe medica, rimandi ad una sensualità burlesque come quella di Belinda, inquietudine e cosmesi da espressionismo tedesco, emergono al contempo accenni al punk, come la cresta di Tommaso Diarreus , o al gothic punk nelle calze a rete strappate e indossate sulle braccia da Angelica. E ancora rimandi al mondo immaginifico del fumetto Disney (i guanti gialli in stile Banda Bassotti) e stravaganze pure come i tacchi colorati. Tale commistione supera le mode presenti e approda ad un futurismo che porta in sé l’inquietudine del passato.

L’uso della gestualità diventa paradigma del giovanile; Angelica e Cleante comunicano in un paradossale slang gestuale che, al contempo, dona sorrisi e solidifica visivamente la coppia.

Accanto al gusto estetico intriso di nuovi riferimenti, vi è anche una rilettura strutturale dell’opera. La presenza del registratore vocale in scena non da vita semplicemente a quello stream of consciousness che potrebbe sembrare. Le parole sono quelle di Malone muore di Beckett, e l’uso che Argante fa dell’oggetto è simile a quello che Krapp ne fa ne L’ultimo nastro di Krapp sempre dell’autore irlandese. La narrazione si apre con una’avida registrazione della realtà quotidiana che si concretizza nel mezzo squallido della purga. Un modo intuitivo di costruire la realtà attraverso il meccanicismo del ridurre il quotidiano ad un elenco di medicine e trattamenti da ricordare quasi che solo attraverso il nastro si possa costruire una verità r-esistente.

L’urgenza del ricordo a fronte di una verità inderogabile: la stanchezza del vivere e l’aspettare di finire come fa Malone.

Ma se il compromesso risolutore di Molière aveva fatto si che Argante curasse il proprio malessere attraverso il conferimento della laurea in medicina cui si era fatto promotore Beraldo, le malade imaginaire di Lavia non culmina allo stesso modo. Il vestito giusto che rende ogni chiacchiera sapienza non basta a guarire l’Argante di Lavia. Non è la finzione, il teatrare l’esistenza a sanare. E non poteva che essere altrimenti. L’introduzione dell’afflizione beckettiana modella il riso amaro della commedia di Molière e ne fa un ben più intenso strumento drammatico di riflessione intimista.

Dopo che l’intreccio è sbrogliato, Angelica corona il proprio sogno d’amore, Belinda viene smascherata, Argante diviene medico di se stesso, il rilassamento diviene contrazione. Argante sempre obbediente agli ordini della medicina suo unico credo dogmatico trova collocazione nel mondo solo in quanto malato. Nato alla morte come rivela la voce finale, riverberante che recita pezzi di Malone muore, attende che sia essa a dare un senso ultimo alla storia. In pochi minuti sulla scena assistiamo ad un veloce scorrere degli anni.

Argante, appena uscito dal bagno, lo ritroviamo ormai vecchio e il suo incedere incerto. Ancora solo, come in apertura, ancora alla ricerca di una compagnia da richiamare attraverso un campanello che ahimè, senza battente non assolve il proprio ruolo.

Steso sul letto ascoltando i passi vicini della morte, in un colpo di forte impatto scenico, assistiamo allo sgretolamento delle pareti di velo nero che contornavano il palco; cadono rovinosamente a terra svelando un dietro le quinte che insieme alle attrezzature del teatro, fotografa lapidario la presenza inquietante di tutti i personaggi: sinistri manichini utili alla storia, riposti senza vita come il corpo di Argante.

Sberleffo, risata, ambigua comicità, dolore, introspezione e malattia del vivere. Attori decisamente nel proprio ruolo, eccezionale l’interpretazioni della giovane Lucia Lavia. Singolare e accattivante la riscrittura di Lavia. Pubblico che applaude di gusto  entusiasta della serata.




21 Gennaio 2011 alle 19:54 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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