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“Non sopporto il bel canto”: intervista a Micol Martinez

di | in: Interviste

Dopo una lunga gavetta, la musicista milanese Micol Martinez ha pubblicato da pochissimi giorni un disco d’esordio che non passa inosservato, per gli illustri ospiti (Rodrigo D’Erasmo, Roberto Dell’Era, Enrico Gabrielli) che ne hanno arricchito il suono certo, ma soprattutto per la qualità delle canzoni, tra le quali spicca l’intensa “Testamento biologico”, ispirata al caso Englaro. “Copenhagen”, questo il titolo dell’album, è stato prodotto artisticamente da Cesare Basile ed è uscito su etichetta Discipline (distribuito Venus). Abbiamo approfittato della disponibilità di Micol per una lunga chiacchierata su “Copenhagen” e sul suo modo di vedere l’universo musica.


Le canzoni di “Copenhagen” sono state scritte nel corso di un lungo periodo di tempo o sono frutto dell’ispirazione di un momento?
Ho scritto i brani del disco in questo ultimo anno, tranne “Il cielo”, scritta in collaborazione con Massimiliano Fraticelli molti anni fa. Ogni canzone ha la sua storia. In alcune, come “Copenhagen” e “Donna di fiori” musica e testo nascono insieme. Altre sono il frutto dell’adattamento di un testo ad una musica scritta precedentemente. Altre ancora, per la parte musicale, sono il risultato della collaborazione con Cesare Basile. In ogni caso, i brani vengono lasciati per molto tempo a sedimentare, fino alla selezione definitiva.

Quando hai avuto il cd in mano, hai pensato almeno per un attimo che fosse un punto d’arrivo?
No, mai. Vivo il cd come un punto, certo fondamentale, di un percorso che mi auguro duri tutta una vita. Al momento non mi sento arrivata da nessuna parte. In ogni caso ciò che più mi affascina e stimola è proprio la strada per raggiungere un qualcosa che, appena sfiorato, diventa un piccolo punto del percorso. Non si arriva mai. Meglio così, anche perché pensarsi arrivati può portare a non mettersi più in discussione, quindi a non migliorare.

Puoi dire qualcosa di più sul titolo?
Mi è stato chiesto di frequente il perché del titolo “Copenhagen”. E’ una città che non ho mai visitato in cui ho fatto vivere una storia. La città, attraverso la scrittura, risulta visualizzabile e palpabile nonostante il dato di partenza. Copenhagen è quindi un luogo-non luogo, il luogo da cui attingo per scrivere. Un luogo che può essere, nel mio immaginario, molto differente rispetto allo stesso luogo immaginato da un’altra persona. Questo è quello che accade alle canzoni. Il titolo è  Copenhagen, ma poteva essere Berlino o qualunque altra città. La scelta quindi della capitale danese è solo legata ad una questione fonètica, al “clima nordico” dell’omonima canzone o ancora ad una questione personale: una persona a cui tengo molto in quel momento era in quella città.


La copertina: tu di tre quarti, una mano aperta verso l’obiettivo e una Danelectro di fianco simboleggiano qualcosa in particolare?
Volevo che la copertina riportasse esattamente quell’immagine. Inizialmente nemmeno io sapevo la motivazione. Una volta visto lo scatto, invece, ne ho capito il senso. Rappresenta il mio “alt”, non categorico né definitivo, all’entrare in quel luogo. E’ la volontà di proteggerlo e forse è anche la paura di scoprirsi. E’ un modo per dire “abbiatene cura”. La Danelectro alle mie spalle è la mia chitarra, ed è l’unico elemento visibile nell’immagine a rappresentanza dell’universo in cui si entra quando si ascolta il cd.

Com’è nata “Testamento biologico”?
Una persona mi aveva chiesto di scrivere qualcosa in proposito. Poi le cose sono andate in altro modo. Ho seguito il caso Englaro e come tutti ne sono stata profondamente colpita. La canzone è nata naturalmente, senza alcuno sforzo, da una forte esigenza emotiva personale. La parte musicale è stata poi rielaborata da Cesare. Solo ora mi rendo conto che il brano contribuisce, nel piccolo, ad una battaglia importante, in cui credo. E, come ho spesso specificato, ne sono più che felice.


ho costellazioni sopra la mia pelle/ma non sono macchie non sono stelle/sono buchi neri da cui puoi vedere/il buio che tengo stretto”: sono alcuni versi di “Donna di fiori”. Questa canzone è un fedele autoritratto?
Sì. Nella canzone racconto le quattro donne delle carte. Nel periodo che ha preceduto la scrittura di questo brano mi sono sentita tutte e quattro quelle donne: Donna di Fiori, che porta un ciclamino (la menzogna) dentro la sua bocca a rappresentare il mentire a se stessi; Donna di Cuori, che lascia il suo cuore all’angolo degli occhi di qualcuno (quindi non a rappresentare la perdita della persona amata, ma la perdita della possibilità di amare… un richiamo all’amica e poetessa Sabrina Priolo); Donna di Quadri, che ha costellazioni sulla propria pelle (ma una macchia non è solo macchia, ha radici più profonde); Donna di Picche che, bella e forte, “da questa distanza” non ti farà più male. Le canzoni nascono tutte da esperienze personali e da intuizioni legate ad un momento o periodo specifico. Oltre al richiamo a Sabrina Priolo, nel disco ci sono altre due citazioni: in “Mercanti di parole” “e quando avrò finito tu saprai che ho finito con te” è un omaggio alla canzone di Cesare Basile “Finito questo” e ne in “Il cielo” cito Nazim Hikmet.


L’album sembra sempre in bilico tra asprezza e dolcezza. Tra questi due estremi tu ti senti perfettamente nel mezzo o propendi più da un lato?
In equilibrio oscillante. L’asprezza a proteggere la dolcezza, la dolcezza a tentare di sopraffare l’asprezza. Le due amoreggiano, litigano, si confondono, in una lotta infinita. In realtà si amano perché necessitano l’una dell’altra.


Nel suono scarno e, allo stesso tempo, elegante del disco si riconosce chiara la mano di Cesare Basile. Quanto è stato importante il suo lavoro?
E’ stato importantissimo. Da lui ho imparato che è la canzone a suggerire come vuole essere prodotta. Cesare ha letto nel profondo dei brani, inoltre mi conosce molto bene, sia musicalmente che personalmente. Credo che nessuno avrebbe potuto “ascoltare” le canzoni quindi “vestirle” con la stessa purezza e onestà artistica con cui Cesare le ha, appunto, ascoltate e vestite. Ogni canzone è un mondo che ha propri colori e profumi.

Che tipo di produttore è stato? Hai avuto scazzi con lui durante la lavorazione del disco o è filato tutto liscio?
Un ottimo produttore. E’ bellissimo vederlo all’opera: in lui c’è la professionalità di chi conosce bene il proprio mestiere e la ricchezza e la curiosità del bambino che gioca con colori e suoni. Basta lascialo giocare e al momento giusto ti darà lo spazio per valutare insieme come andare avanti sul lavoro. C’è stato qualche momento in cui i punti di vista divergevano, ma non potrei davvero definirli scontri.

In che misura i pezzi del disco suonano come i pezzi che avevi mente prima di entrare in studio?
Cesare e collaboratori (in particolare Luca Recchia) in alcuni casi hanno trovato soluzioni che non avrei nemmeno immaginato. “Stupore”, che era scritto da me in terzine, ora gira in modo completamente diverso, lasciando una sensazione di sospensione che prima non aveva. “Il vino dei ciliegi” era un pezzo più tirato e in fase di produzione si è trasformato in una ballad. Altri, come  “Copenhagen” , “Donna di fiori” e “A guado” coincidono con l’idea che avevo prima di entrare in studio. In ogni caso, sono riusciti a costruire piccoli mondi intorno ad ogni brano.


L’album è pieno di ospiti. Come sono nate le collaborazioni?
Anche qui c’è la mano di Cesare. Mesi prima della registrazione avevo chiesto a Enrico Gabrielli di partecipare. Roberto Dell’Era è un mio amico da molto tempo. Cesare al momento opportuno ha quindi radunato Roberto ed Enrico, poi ha chiamato anche Fabio Rondinini, Rodrigo D’Erasmo, Alfredo Aliffi, Alessio Russo, che suona la batteria con me ormai da più di un anno, Alberto Turra, che mi accompagna anche nei live. Il lavoro in studio con loro è stato divertente e leggero.


Perché, al contrario per esempio dell’America, dove vengono fuori in continuazione nuove cantautrici, in Italia sembra così difficile emergere se si è donna e si scrive canzoni?
A mio avviso, da un lato vige ancora un certo maschilismo nell’ambiente musicale, sia artistico che di business. Ma non è nemmeno il maschilismo il problema. Ogni tanto ho la sensazione che alcune donne che fanno musica siano intimorite dal giudizio maschile di altri musicisti. Specifico: è una sensazione rispetto ad alcune realtà. Questo porta ad una ricerca di composizione che finisce per non lasciare spazio alla manifestazione di quelle che sono le peculiarità della donna: una scrittura che nasce dalle ovaie e dalla pancia, quell’istinto femminile che porta a scavare nelle viscere. Inoltre, il bel canto italiano non ha davvero aiutato. Come ho già detto in altre interviste, non amo, anzi, quasi non sopporto il bel canto. Spesso finisce per risultare standardizzato. Mi piacerebbe ci fosse più concentrazione sui testi e più generosità nel svelarsi. Mi piacerebbe che la donna non fosse sempre dolce, malinconica o innamorata. In fondo “anche le donne nel loro grande si incazzano”. Chiaramente questa è una sensazione generale. In Italia abbiamo, e abbiamo avuto, grandi cantautrici.

Hai una stella polare?
Sempre in bilico fra Fiona Apple, Pj Harvey, Tori Amos… ma anche Patti Smith… e Janis Joplin…e…


Quanto cambiano dal vivo le canzoni di “Copenhagen”?
Direi che cambiano i profumi e colori, non le canzoni stesse. E’ difficile ricreare i mondi di cui parlavo prima, perché purtroppo non ci si può permettere di andare in tour con una formazione di sei elementi, mentre il cd è ricco di strumenti a fiato, violini e varie. La formazione sarà composta da me alla voce e al piano (e/o chitarra), Alessio Russo alla batteria, Alberto Turra alla chitarra, Alfredo Aliffi al basso e contrabbasso. Il live avrà un sound più scarno rispetto a quello del cd, ma credo altrettanto intenso. In qualche occasione, ci sarà, mi auguro, la possibilità di suonare con tutti coloro che hanno partecipato alle registrazioni.


Come descriveresti il tuo live act a chi non l’ha mai visto?
Scarno e intenso? Sì…


Da spettatrice, quando vai ad un concerto cosa ti aspetti dall’artista sul palco?
Dando per scontato che si tratti di un artista che già amo, mi aspetto totale generosità, oltre che professionalità.

Cosa puoi dire della scena musicale milanese in questo momento, nel 2010?
Credo sia molto viva. Vivo la Milano notturna, anche per il lavoro da dj che continuo a praticare, e sento molto fermento. So di continue collaborazioni e credo che questo faccia bene. Per le strade di questa città si aggirano tante “presenze” più o meno conosciute, da Afterhours e Marta sui Tubi, allo stesso Cesare Basile, Calibro 35, Dente, Roberto Dell’Era (di cui sono in trepidante attesa del cd), Atleticodefina, Alessandro Grazian, ma anche Airìn, Fabrizio Coppola, La Fonomeccanica, i Guignol… Molti sono anche amici, vorrei nominarli tutti ma temo non sia possibile. C’è un po’ di tutto. Ci si muove, sottilmente, dal basso, contrapponendosi alle politiche sanremesi e ai talent show. Ricercando il proprio spazio rispetto all’egemonia delle major e dei media che di qualità, ahimè, ne promuovono sempre troppo poca. Per quel che mi riguarda, cerco di fare al meglio quello che mi compete.





10 Febbraio 2010 alle 18:32 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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