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The National “High Violet”

di | in: Primo Piano, Recensioni

“High Violet” (4AD, 2010)

 

Etichetta: 4AD
Brani: Terrible Love / Sorrow / Anyone’s Ghost / Little Faith / Afraid Of Anyone / Bloodbuzz Ohio / Lemonworld / Runaway / Conversation 16 / England / Vanderlyle Crybaby Geeks
Produttori: The National

 

La cosa che paventavo di più era che i National si trasformassero in un gruppo da stadio. Come i Coldplay, per dire, che mi hanno emozionato giusto il tempo dell’esordio e poi si sono messi a fare gli U2, come se si sentisse il bisogno di altri U2. “High Violet” mi ha tranquillizzato. Dopo il successo di “Boxer”, con Fake Empire che addirittura era stata scelta da Obama tra le canzoni della campagna presidenziale, il rischio che i ragazzi di Cincinnati (ma trapiantati a Brooklyn) si lasciassero andare a soluzioni di facile appeal, alle tirate sotto sotto paracule à la Arcade Fire o a un disco iperprodotto, era reale. “High Violet” prosegue nel solco scavato da “Boxer”, senza grosse rivoluzioni, le canzoni sono belle, i testi sempre al di sopra della media pop, la batteria di Bryan Devendorf grande protagonista insieme al baritono di Matt Berninger. Quel suono che ha fatto a suo modo la storia degli anni zero è qui riproposto senza essere stravolto, con qualche aggiustamento di tiro all’insegna dell’equilibrio.
Pur non raggiungendo nel complesso la bellezza di “Sad Songs For Dirty Lovers” e “Alligator”, dischi contenenti autentici gioielli come Cardinal Song, Lucky You, Karen, Sons And Daughters Of Soho Riots, “High Violet” arricchisce di nuovi interessanti capitoli il discorso amoroso che Berninger, tra maleducazioni sentimentali e cuori in frantumi, continua a portare avanti con l’autorevolezza dell’ousider di talento. Stavolta già i titoli la dicono lunga: Terrible Love, Sorrow, Anyone’s Ghost, Afraid Of Everyone lasciano pochi spazi al dubbio, qui è il rovescio della vita che viene messo in musica.
Terrible Love è il pezzo d’apertura che, sempre sul punto di esplodere, resta sul filo di una dolcissima tensione, facendosi manifesto circonvoluto, ipnotico e vagamente marziale, con le chitarre dei fratelli Dessner registrate sporche a creare un contrasto sublime con le armonie di voce e organo. Sorrow è un buco nero degno dei primi Tindersticks, con una quartina iniziale («sorrow found me when I was young/sorrow waited, sorrow won/sorrow they put me on the pill/it’s in my honey, it’s in my milk») che non si fa scrupoli ad inabissarsi nelle gradazioni più cupe della scala dell’umore, con il valore aggiunto del fraseggio irregolare e straniante del rullante di Devendorf. In Little Faith ricompare uno di quei ritornelli capaci di incunearsi nell’anima e restarci per giorni, colpa di una melodia killer e di uno o due versi che giocano con un accennato ermetismo e si fanno cantare come non se ne potesse fare a meno. Stavolta sono gli appena sussurrati «we’ll play nuns versus priests/until somebody wins» a vincere le mie difese.
Anyone’s Ghost, Afraid Of Everyone e Bloodbuzz Ohio si affidano a tinte wave per far presa sin dal primo ascolto e ci riescono pur mantenendo un’identità precisa e assonante a tutto il resto. Specie Bloodbuzz Ohio, perfetto esempio di come i National siano capaci, nell’incrocio tra una sezione ritmica febbrile e sentimenti da solitudine metropolitana dichiarati ai quattro venti, di riaggiornare puntualmente l’ormai riconoscibilissima ricetta di casa, risultando sempre sorprendenti. Provate a dimenticare questi versi dopo aver ascoltato il pezzo anche solo un paio di volte: «I was carried to Ohio in a swarm of bees/I’ll never marry but Ohio don’t remember me». Inutile, non ci riuscirete.
Il disco va avanti adagio, lasciando con Lemonworld tre minuti di pausa per tirare il fiato. Pezzo leggero come una limonata. Poi i toni si riinabissano. Runaway è una ballad di sofferta indolenza, forse apice dell’intera raccolta, con versi di un’esattezza matematica che si stagliano perentori nell’aria a sostenere una domanda («what makes you think I’m enjoyin’ being led to the flood?») destinata a restare sospesa come se fosse scritta da volute di fumo cattivo che faticano a disperdersi. Trattasi di un pezzo così velato e nascosto, un capolavoro talmente minuscolo, che non si deve commettere l’errore di perderne la bellezza tutta, magari skippandolo dopo il primo ascolto non entusiasmante. Poi ci sono il racconto psicotico di Conversation 16, dove i ritmi tornano febbrili, e England, unico momento debole di “High Violet”, con l’organo a farla da padrona e, alla fine dei quasi sei minuti, a risultare un filo noioso . Chiude la ballata Vanderlyle Crybaby Geeks, isola di pacificazione, inno di sottile rinascita, orizzonte senza ombre. E’ con un richiamo alla natura e col verso «I’ll explain everything to the geeks» che i National sigillano un album che li conferma nuovi classici contemporanei, autori di meraviglie incapaci di emanciparsi dalla dimensione intima di un salotto di casa, di una sala prove o di un club per mille persone. Tutto tranne che uno stadio, sembrano dire Berninger e soci. I Coldplay continueranno a registrare pathos da arena, tenendo salvo lo scettro. Io insisto a coccolarmi i National nel salotto di casa. Matt Berninger continua a guadagnarsi sul campo il vicinato dei fidi Nick Cave e Stuart Staples nella mia collezione di dischi.




13 Giugno 2010 alle 18:35 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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