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L’assenza del quotidiano, la scrittura ottica e l’insostenibile pesantezza dell’essere: intervista a Paolo Benvegnù

di | in: Interviste

Intervistare Paolo Benvegnù è un atto d’amore. Dare voce ad uno dei pochi veri artisti in circolazione, incapace di risparmiarsi com’è e sempre sul punto di cantare quella che pare essere la sua ultima canzone, è allo stesso tempo, per chi scrive di musica, un piacere e un dovere. Esiste oggi in Italia un musicista più generoso, puro e indipendente di Paolo? A me non viene in mente nessuno. Da quando ha intrapreso la sua splendida carriera solista, l’ex Scisma ha pubblicato due album (“Piccoli fragilissimi film”, 2004, e “Le labbra”, 2008) che possono essere considerati tra i punti più alti della canzone d’autore italiana degli ultimi anni, più tre ep (“Cerchi nell’acqua”, 2005, “14-18”, 2007, e “500”, 2009), che di minore hanno solo il numero dei brani. Da qualche settimana Paolo ha pubblicato un disco live, “Dissolution”, che documenta il concerto romano dello scorso dicembre con una formazione allargata con archi e fiati. E’ l’occasione per ridargli la parola.


Come mai hai scelto questo momento per pubblicare il primo album live della tua carriera?
Perché l’idea era quella di chiudere finalmente il periodo dell’educazione sentimentale. Nella vita ho cercato tanto, ho trovato tanto, nel bene e nel male, e la cosa che mi veniva da dire era “facciamo un concerto in cui riassumiamo tutto” ed è quello che poi è successo. Non abbiamo cercato questo live in maniera insistita, abbiamo detto “registriamo e proviamo a vedere”, poi c’è sembrato che il materiale fosse buono e l’abbiamo mixato in pochissimo tempo, i brani erano già così, non abbiamo dovuto correggere nulla, per cui il disco è una copia abbastanza fedele di uno dei nostri tanti concerti improvvisati.


A che livello credi sia arrivato il tuo live-act?
Non so, quando suoniamo con continuità i live sono molto potenti, anche perché secondo me riusciamo a dare quel qualcosa in più e ad essere davvero quello che diciamo e che suoniamo e non per tutti è così scontato.

Infatti ai tuoi concerti si percepisce un’intensità diversa rispetto a tante altre situazioni. Personalmente dal vivo ho sempre l’impressione che ogni canzone sia per te questione di vita o di morte.
Per me tutte le cose andrebbero fatte così, poi io non riesco a pensare a un gioco più serio di questo. La mia vita è assolutamente fatta per scrivere canzoni e per cantarle, tanto è vero che proprio mentre sto scrivendo (adesso sto scrivendo un disco che dovrebbe uscire a marzo prossimo) ogni istante è vitale e sto sempre attento a tutto, e questo da un lato è bellissimo, dall’altro mi fa perdere tante cose soprattutto mi fa perdere la misura del quotidiano. Io non ho quotidiano, non so che giorno è oggi. Per certi versi è anche meglio. Diciamo che ho fatto delle scelte per arrivare a questo. Ho lavorato per tantissimo tempo, prima di incominciare seriamente a fare il musicista squattrinato ho fatto l’impiegato squattrinato e prima ancora il barista squattrinato, insomma ne ho fatte parecchie di esperienze, perciò oggi è proprio una scelta il fatto di non avere un quotidiano specifico. Questo non è detto che porti sanità mentale, io anzi ogni anno che passa lo sento proprio, pesantemente, perché è così… c’è sempre una ricerca spasmodica. Per cui se dal vivo senti delle differenze rispetto a tante altre situazioni può darsi che sia anche per questo.


In questi anni di grande apprezzamento per il tuo lavoro, quanto sei stato tirato per la giacca e da chi?

No, non son stato tirato per la giacca da nessuno. Anzi. Spesso io e i ragazzi della band ci sentiamo come quei cavalli del Palio di Siena che si continuano ad allenare nell’ansia di vivere il Palio e poi il Palio non lo fanno mai. L’apprezzamento è un privilegio, ho fatto tanto per arrivare a questo, per cui ogni restituzione la vivo davvero come un privilegio. So di non avere un grande talento ma ho un grande impegno e questo mi spinge a impegnarmi ancora di più per spostare i limiti della scrittura. Per quanto riguarda giacchette e cose del genere, però, non sono stato tirato da nessuno perché quasi nessuno si interessa a situazioni di questa densità, che è diversa dalla densità usuale, dalla densità che si sente nelle radio… Di questo però in tutta sincerità me ne frego, credo che uno debba stare più vicino possibile a se stesso, per cui io faccio la mia cosa in qualsiasi posto, se poi i posti son piccoli non mi interessa.

Tue canzoni sono state interpretate da Irene Grandi, Marina Rei, Giusy Ferreri, persino da Mina: come giudichi le riproposizioni fatte da queste donne?
Per me sono grandi restituzioni. Irene Grandi e Marina Rei sono grandi performer però Mina è una donna, non penso di offendere le altre dicendo questo. Anche se il brano di Mina è arrangiato in maniera non usuale per me, basta che lei cominci a cantare per sentire che è una donna che ha vissuto gioie e dolori e ogni volta che apre il canto questa cosa la senti. Giusy Ferreri non la conosco, lei non s’è fatta conoscere, nessuno mi ha detto che la sua cover usciva, ma sono stato contento perché ci ho pagato tre mesi di affitto.

Quando invece sei te a cimentarti con brani altrui è sempre magia. Ricordo, su tutte, una riuscitissima cover di “In A Manner Of Speaking” dei Tuxedomoon. Su “Dissolution” ti misuri con “Who By Fire” di Leonard Cohen. Qual è il tuo modo di approcciare le canzoni da reinterpretare?
Oh, “In A Manner Of Speaking”… mi piaceva molto quel pezzo! Comunque mi approccio in maniera molto semplice alla canzone da interpretare, cerco di evitare di pensarla, mi tuffo sul canto, sulla melodia come si può tuffare un bambino tra le braccia di una mamma, il più delle volte non ci riesco, a volte invece ci riesco e sento che è qualcosa che mi arricchisce.

Nelle tue canzoni c’è un incessante fluire di sentimenti. Esiste una direzione precisa verso cui si dirigono ed esiste un posto dove alla fine si fermeranno?
Per me il travalicare l’aspetto uno contro uno è andare verso il mondo, quel poco che faccio per come lo faccio mi sembra la storia di un uomo che va nel mondo. E ogni restituzione dal mondo, ripeto, per me è un privilegio. Io faccio una vita molto ritirata, vivo come un monaco, vivo per scrivere canzoni e anche il fatto che tu sia qui ad intervistarmi per me è una grande restituzione.


Paolo Benvegnù "Dissolution" (La Pioggia, 2010)

Paolo Benvegnù "Dissolution" (La Pioggia, 2010)

Hai una tecnica particolare per la stesura dei testi?
No, l’unica tecnica che ho è il cercare di non scrivere cose brutte. Ho, da “Le labbra” in poi, una soglia di autocensura molto alta, per cui sono più le cose che scarto che quelle che tengo. Poi mi sono accorto che uso spesso le stesse parole e gli stessi temi, è una cosa da cui vorrei uscire ma non so se ce la farò perché la mia è un po’ una scrittura ottica. A volte gli uomini vedono sempre le stesse cose ed è un po’ difficile uscirne fuori. Mi piacerebbe tantissimo andare oltre l’orizzonte che vedo sempre ma per riuscire a far questo dovrei riuscire a smettere di pensare, che è un privilegio che è concesso a pochi uomini. Io vorrei arrivare al punto di smettere di pensare e uscire da questo tipo di scrittura ottica. Non so se ce la farò, sono ancora troppo pesante, troppo grave.

Negli ultimi anni sei diventato un produttore richiestissimo. Personalmente, tra tutti i progetti a cui hai collaborato, ne sceglierei due: “Canzoni allo specchio” dei Perturbazione e “Unmade Beds” di Marti. I tuoi preferiti invece quali sono?
In “Canzoni allo specchio” ci ho messo grande amore e dopo non averlo sentito per tre anni, l’ho risentito l’anno scorso ed è davvero un disco incredibile. Risentendolo, sono proprio stato soddisfatto, considerati anche i limiti che abbiamo avuto al tempo per fare quel lavoro. Poi a loro voglio bene, i Perturbazione sono belle persone. Poi, tra i lavori che ho fatto, direi Murièl, e tutti i ragazzi che gravitano a Prato, Dilatazione… Baby Blue, anche se lì ho solo collaborato. E poi Vandemars, un gruppo di Siena. Loro sono fantastici, poi se vuoi ti do una copia del disco, perché il loro è davvero il disco più bello che io abbia fatto.

Ho letto una tua dichiarazione che diceva pressappoco così «sono uno dei produttori meno pagati, è per questo che mi cercano in molti». Confermi o ritratti?
E’ verissimo. Tra l’altro ho avuto la fortuna, grazie a Giusy Ferreri e a Marina Rei, di riuscire a stare quattro o cinque mesi senza dovermi preoccupare dell’affitto, perciò non mi sono fatto nemmeno pagare in alcune situazioni, o pagare pochissimo, diciamo in modo simbolico. C’è anche da dire che produrre un disco mi appassiona tantissimo. Molti pensano che io sia un produttore molto rigoroso ma non è vero, quello che faccio è mettermi lì e cercare di far uscire quello che gli artisti hanno da dire.


Che ambiente è quello della musica indie italiana? Una piccola oasi in un mondo di merda o un mondo di merda a sua volta?
E’ un mondo migliore del mondo di un qualsiasi condominio. Non è un mondo di merda. Ci sono tantissime persone che cercano spazio, chi in maniera ineffabile chi invece in maniera rigorosa e sobria. Naturalmente io, essendo sobrio, preferisco i sobri, ma quello è un discorso diverso. In realtà, rispetto al mondo reale, che è quello della posta, della spesa e del condominio, è un mondo bello.


Hai amici veri in questo ambiente? Intendo al di fuori dei ragazzi della band…
Sì, a parte i ragazzi della band che sono proprio miei fratelli… Se non ci fossero loro penso che avrei smesso già da tempo, perché davvero mi trovo bene, è una felicità star con loro…  ma in un modo diverso. C’era una complicità anche con gli Scisma, ma erano altri gli obiettivi ai tempi. Ora che ci siamo ritrovati magari ci sarà tempo per altre cose, magari per vedere i figli delle ragazze degli Scisma che diventano grandi… che è bellissimo! Con i ragazzi del gruppo c’è invece una vera fratellanza, di quelle da grugnito, di quelle che mangi e fai qualsiasi cosa insieme, io non ho mai avuto una fratellanza del genere, una famiglia del genere. Comunque ho un po’ di amici. Quasi tutti i gruppi con cui ho lavorato in produzione sono persone con cui mi sento e con cui mi trovo bene, poi ci sono persone che stimo tanto, per esempio Bobo Rondelli, Marco Parente. Sarà che io sono un uomo di cuori, come mi dicono in tanti, ma a me quello dell’indie sembra davvero un mondo non cattivo. C’è un lato più sgradevole, quello più di facciata, ma credo anche che ci siano mondi molto più terribili.

Perché ogni volta che si ascolta “Simmetrie” è come se il tempo si fermasse e ci si ritrovasse a fluttuare nel vuoto con l’amore della propria vita?
Non lo so, quella è una canzone di auspicio, è una canzone d’amore ma una canzone d’amore spostata nel tempo. Per me tutte le canzoni, così come tutti gli scritti, dovrebbero essere senza tempo. Di limiti di tempo e di spazio ne abbiamo troppi ogni giorno, così per la scrittura delle canzoni o dei romanzi si dovrebbe proprio traslare nel tempo, come quando vai al cinema e vivi per due ore una vita diversa. Poi, non so, io quando suono “Simmetrie” ho sempre l’impressione che sia un brano leggero e denso, se mi dici che a te fa fluttuare nel vuoto per me è un onore e un po’ arrossisco anche.

Quale consideri l’apice della tua via alla canzone d’amore?
Sicuramente “500”. Quando la disillusione non porta al cinismo ma porta all’amore. “500”. Per me quel pezzo lì è perfetto. E guarda è rarissimo, infatti il mio problema adesso è scrivere canzoni a quell’altezza. “500” è un pezzo perfetto, dice cinque cose ma sono cinque cose basilari, se uno ha voglia di sentirle.


Come mai i dischi degli Scisma sono finiti fuori catalogo?
Noi eravamo un po’ sindacalisti, per quanto il mondo indie-rock italiano ai tempi ci considerasse un po’ dei fighetti. All’interno della EMI abbiamo fatto un po’ i sindacalisti, abbiamo fatto delle scelte che da loro non sono state per niente gradite, al punto che appena ci siamo sciolti so che hanno buttato al macero i nostri dischi… di “Armstrong” (ultimo album degli Scisma, del 2000, nda) so per certo che hanno distrutto almeno 3-400 copie. Ho chiesto loro se me le vendevano, ma le avevano buttate al macero. Allora c’era una grande abbondanza… adesso quelle 400 copie non le butterebbero più via, magari ci pagherebbero gli stipendi dei quadri intermedi.


Quali dischi ti sono piaciuti ultimamente?
Non ascolto molta musica, perché sono molto impegnato a farne. Comunque sono fermo un po’ lì. I dischi che mi hanno segnato tanto in questi anni sono stati “Loughing Stock” dei Talk Talk e il disco solista di Mark Hollis (leader degli stessi Talk Talk che ha realizzato il suo unico album solista, intitolato semplicemente “Mark Hollis”, nel 1988, nda). Quei due dischi sono secondo me bellissimi, fatti con una grazia e un talento che io non posseggo. Il mio tentativo è sempre quello di andare verso un tipo di scrittura così rarefatta e così perfetta ma non ci riesco. Sono ancora, ribadisco, pesante e allora prima di spiccare il volo credo ci vorrà ancora tanto slancio.





23 Luglio 2010 alle 18:33 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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