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Greil Marcus “Bob Dylan, scritti 1968-2010”

di | in: Primo Piano, Recensioni

Bob Dylan Scritti 1968-2010 (Odoya, settembre 2011)


Non è un libro facile. E non certo per le quattrocentotrentotto pagine che pure scivolano giù come un fresco bicchiere di Geco di Tufo. No. Non è facile se l’autore è un certo Greil Marcus, signorotto californiano senza peli sulla lingua. Penna rapida, veloce, forse più delle sue stesse idee. Professione critico musicale. Giornalista. Persona capace, nel 1970, a soli venticinque anni, di proporre un fine parallelismo tra gli escrementi umani e “Selfportrait”. Incoscienza o coraggio o forse entrambi. Ma quest’album, in effetti, non può definirsi un masterpieces nella carriera di Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan. Ed in effetti Marcus ebbe il coraggio di sostenere le sue idee e di portare alla luce ciò che la critica non aveva proprio il coraggio di sputare fuori. Trasgredendo regole non scritte, rompendo convenzioni preconfezionate e, forse, anche qualcos’altro, considerando che il menestrello di Duluth non tardò a ricambiargli il favore aggettivandolo in egual modo.


Così inizia il viaggio. Tormentato. Essenziale. Intenso. Quattrocento e passa pagine di storia ci raccontano proprio questo. Attrazione e repulsione. Lo yin e lo yang. Una storia d’amore che ti succhia il sangue, ti prende l’anima e più va a fondo più tenti di scacciarla. Odio et amo, perché Greil è “uno che non vede l’ora tributare una standing ovation a Dylan, ma che non avrebbe acceso un cerino manco morto”. Al bando le banalità. Le emozioni sono per loro stessa natura conflittuali. Ed il passaggio tra la mente e la penna di Marcus è talmente rapido da freddarti l’anima.
Dal 1968 al 2010. Quarantadue anni di note divenute leggenda. Mezzo secolo di rock indagato, spulciato e denudato. Una colonscopia nell’animo dylaniano. Senza paura, né timori. Lo scrittore veste i panni del chirurgo con certosina dedizione per affrontare un paziente non facile. Un po’ musone, dalla freddezza quasi nordica. Un rude. Un solitario. Un provinciale. Un osso duro il cui unico interesse è andare al di là. Guarda caso proprio come lo scrittore californiano. Non ci sono, infatti, in questo saggio, soltanto testi, recensioni, concerti ed aneddoti. C’è la musica intesa come stagione dell’anima. La primavera, tempo di scoperte: “sentire la sua musica e le sue canzoni equivale a farsi un’idea di quel che succede e di quel che succederà..perché lui è un pioniere che in mezzo alla città riesce a scoprire strade dimenticate e a renderle nuove”. L’instabilità atmosferica di questa stagione ben riflette lo spirito dello scrittore. Fedele solo a stesso ed al suo amore, finisce per innalzarlo e dissacrarlo allo stesso tempo: “Street Legal”(1978) è aria fritta, “Before the flood” (1974) è scialbo e superficiale.


La penna di Marcus è alcol puro che brucia. E’ talco mentolato in grado di lenire pruriti ed incertezze. E’ uno sguardo lucido e reale sul reale. La sua biro si estende fino ad invadere territori limitrofi, o quasi. Perché la musica è nella quotidianità e non può prescindere da essa. Contesto sociale e politico sono di pari importanza per lo scrittore. Così come per Dylan (e non scopriamo l’acqua calda). Ma importanti per cosa verrebbe quasi da chiedersi. Il nocciolo da spolpare è tutto qui. “Entrambi cercano il senso della vita e addirittura la verità, che è ricca di ombre. Non approderanno mai da nessuna parte, come ben sapeva il ragazzino della Ballad of Judas Priest and Frankie Lee; alla fine di tanti slanci e drammi, amicizia vita morte, non c’è nessuna morale da trarre, “nothing is revealed”. Ma sarà stato bello ed importante cercare comunque per Marcus, per Dylan, per noi; provare, sforzarsi, credere e nel frattempo la vita c’è stata”.
Greil fa il mestiere più eccitante e appagante che ci possa essere: quello di scrivere. Ed in questo saggio lo fa divinamente.





19 Marzo 2012 alle 0:27 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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