Bob Dylan @ Cittadella del Carnevale, Viareggio – 16.06.2010
di Simone Grasso | in: RecensioniIl sogno lo aspetti, lo desideri, ti appartiene. Ti lacera anima e cuore. Scava fosse profonde, penetrando nel posto di cui solo tu hai le chiavi. Dando sostanza a pensieri, emozioni ed azioni. Parole musicate che no, non comunicano, ma rappresentano. E nessuno più e meglio di lui è riuscito a rappresentare il passato ed il presente della musica, le contraddizioni e le paure, le speranze e le illusioni. Con quella semplicità di chi riveste le sue parole con qualche straccio, umile ma reale. Dal millenovecentosessantadue al duemiladieci. Quarantotto anni di storia che diventano leggenda. Un viaggio in compagnia che, chi scrive, sta percorrendo da circa un decennio. Allora, quando concretizzi l’idea di un sogno che ormai dista poche decine di chilometri e ad un paio d’ore di macchina, fai fatica a crederci. Il viaggio da Firenze a Viareggio è la tappa finale di un’annosa attesa. Perché prima o poi decidi di svegliarti e toccarlo questo sogno. Sedici giugno duemiladieci. Perché la fila all’ingresso dei cancelli rende il tutto ancor più emozionante: ogni cosa a suo tempo. E quello per vederlo dal vivo stava per arrivare. Fino a quando, ore 21.32, compare sul palco col piglio di chi la sa lunga, di chi ha voglia ancora di stupire. A dispetto dei suoi sessantanove anni. Col cappello a cilindro, un po’ dandy man, accompagnato da una band dal sound che definir entusiasmante ed eccitante sarebbe peccato ed eufemistico. E allora quando parte con Rainy Day Woman è un delirio, nonostante sai che quel testo ha quasi vent’anni più di te. No, fai fatica a realizzare quanto sta accadendo, ma poi ti accorgi che è proprio lui: preleva dal taschino la sua amata armonica per rievocare suggestioni che fanno venir la pelle d’oca, che ti spiazzano e penetrano dentro come coltello nel burro. E’ Just like a woman, tra le 500 canzoni più belle di tutti i tempi, secondo la rivista musicale Rolling Stone. Continua a lanciare pietre preziose, il menestrello, con quell’entusiasmo che ti spiazza. Sorride, accenna qualche passo di danza, si muove sicuro, si siede di rado. Osserva i tremila e passa fan con gli occhi di chi ha fatto la Storia, di chi sa come far divertire ed emozionare. Forse è questo ciò che colpisce di più. Perché un Bob così non te lo aspetti. Il fiato corto ed una voce che risente degli anni passati a diffondere il verbo da una parte all’altra del globo sono cose che alla fin fine si potevano facilmente immaginare. Ma quell’entusiasmo e quel carisma illuminate forse no, non era prevedibile. E allora Rollin’ and tumblin’, Shelter from the storm, Honest with me, Man in the long black coat, High water (for Charlie Patton), in rigida sequenza non fanno altro che surriscaldare gli animi che esplodono in un momento di puro orgasmo musicale con ciò che non ha bisogno di presentazioni: Desolation row, Highway 61 Revisited, Ballad of a thin man. Scusate se è poco.
Voci e brusii faticanti di ex capelloni si affiancano e sovrappongono alla vitalità di giovani desiderosi di divorare musica pura. E come una pietra che rotola veloce e dirompente verso la valle, si arriva al bis con quelle che sono, forse, i due tesi più rappresentativi e significativi del percorso musicale del menestrello di Duluth: Like a Rolling Stone e Blowin’ in the wind. Peccato solo per “quella risposta che soffia nel vento”, quasi irriconoscibile e che ho fatto fatica a comprendere se non negli ultimi versi. Ma va bene così, perché ciò che cercavo l’ho trovato. Perché, come ogni viaggio ha un inizio ed una fine e questa sarà memorabile, forse perché non finirà mai del tutto. Never ending. Ore 23.15, il palco rimane vuoto e si riaccendono le luci. Nel frattempo rimane una serata che va al di là e al di sopra del concetto di musica per trascendere se stessa e ritornare oggetto onirico, entità trascendentale, materia da venerare. Imperdibile. Essenziale. Unico. That’s rock and roll. Grazie, Bob Dylan.