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Inno alla disaggregazione

di | in: Editoriali

Una delle tante manifestazioni degli ultimi mesi

di Pierluigi Lucadei


Uno degli aspetti più fastidiosi della crisi economica, se si escludono le difficoltà di pagare gli asili nido ai propri pargoli, gli alimenti alle ex mogli, il ciappi agli animali domestici, il carburante alle automobili e se si esclude soprattutto la necessità di talune famiglie di rinunciare a carne e pesce nei giorni immediatamente precedenti l’accredito dello stipendio e di riparare in una pseudo dieta mediterranea a base di farinacei e pomodoro, uno degli aspetti più fastidiosi della crisi, dicevo, è il dover assistere all’aggregazione di masse. Tetre e numerose e tante. Vengono fuori da ogni parte, masse di mandibole anchilosate in un unico rozzo coro, sbucano da ogni fessura coi loro slogan da patatine fritte, con le più trite retoriche di opposizione, militanti del confondersi tra decine, insiemi di ciascuno incapaci di essere uno. Nel corso di questi mesi hanno scioperato i camionisti e i farmacisti, hanno manifestato i metalmeccanici, si sono scapigliati gli insegnanti, dati alla violenza i pensionati, infervorati prima e depressi poi quelli che pensavano di andare in pensione e invece no: tutti, rigorosamente, raggrumati insieme in quel coagulo in cui l’uomo medio gode chissà perché nel diventare numero.
Credo che ci siano due tipi di filosofia, quella dell’ammassarsi e quella del distaccarsi. Da una parte l’ovino, dall’altra il poeta, o forse l’idiota. Delle due filosofie io, credo si intuisca, mi illudo di seguire la seconda e nel mio impeto alla disaggregazione sono abbastanza lucido da riconoscere, in quantità equimolari, momenti lirici e momenti sciocchi. Starmene in disparte, puntare l’indice sulle orde caciarone, stramaledirle e allontanarmene con aria di disgusto mi fa sentire Auden? Farlo per partito preso, andare a letto tranquillo con il mio cinguettio di versi tranne poi accorgermi che ho sputato contro una causa che ritengo di primaria importanza rimpicciolisce la mia statura di poeta, abbassa l’asticella del mio orizzonte, mi fa vedere tra le crepe della mia coerenza e trovarci dosi generose di stupidità. Tento di nascondermelo, ma in fondo so bene che Thich Quang Duc e Jan Palach erano figli di masse in protesta.
Ma l’ostinazione a negarmi quando si supera il confine sottilissimo che separa una causa condivisibile da una causa condivisa non mi abbandona, il terrore del gregge mi porta altrove, a occuparmi i pensieri con fili d’erba e ossi di seppia mentre fuori lottano per una flessibilità più giusta, a rifugiarmi nei più nostalgici tra i dischi della mia collezione mentre fuori si muore per un futuro. E’ il mio narcisismo ad essere irriducibile al punto da paventare che su di me cali l’ombra? Nel gregge l’eclissi? Per intanto sprango le mie porte e impedisco gli ingressi indesiderati, difendo i miei diritti da solo e continuo a vivere come se un crac vero non ci sia stato, tra l’uscio e l’orticello. Come il piccolo sciocco che sono continuo a mitizzare il gesto del singolo e ad augurarmi che la crisi, così come ha contribuito a metterli insieme, in un graduale e silenzioso refluire, riporti via tutti i miei simili che hanno preferito mettere da parte se stessi per raggrumarsi nell’indistinguibilità.




6 Maggio 2012 alle 11:29 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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