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I Virtuosi Italiani al Teatro Rossini di Pesaro

di | in: Cultura e Spettacoli

Teatro Rossini di Pesaro

PESARO – Serata speciale al Teatro “Rossini” di Pesaro per il gradevolissimo ritorno de “I Virtuosi Italiani”- una delle formazioni più qualificate nel panorama artistico internazionale- nell’ambito della 53a stagione concertistica organizzata dall’Ente Concerti, presieduto da Guidumberto Chiocci, sotto la direzione artistica di Federico Mondelci.

Attraverso Vivaldi e Bach, un grande violinista (Alberto Martini) nella parte ‘antica’ di maestro di concerto, un flautista di grande esperienza (Mario Folena) ed un cembalista dalla carriera internazionale (Roberto Loreggian) hanno alternato celebri concerti solistici e meno note sinfonie -tratte dalle vivaldiane “La Verità in Cimento” (1720) e “Arsilda, regina di Ponto” (1716)- proiettando il pubblico nello sfarzo del secolo dei Lumi.

Alla fine del Seicento, com’è noto, si propagò in Europa il concerto “solistico”, forma musicale che affondava le proprie radici nel passato e che conoscerà di lì a poco un grande futuro. La contrapposizione di due gruppi nell’ambito della stessa esecuzione non costituiva una novità, ma da quel momento in poi, in luogo di due formazioni simili, si confrontarono un gruppo strumentale “generico” ed uno “virtuoso”, contraddistinto da spiccata bravura, che instaurava col pubblico un rapporto speciale e più diretto.

Grazie al perfezionamento degli strumenti musicali ed alle loro potenzialità tecniche, il concerto si strutturò ad inizio Settecento: la diffusione iniziò in ambito veneziano dove l’indagine più straordinaria in tal senso si produsse nell’opera di Antonio Vivaldi (Venezia, 1678 – Vienna, 1741); in seguito raggiunse gli autori coevi del resto d’Europa, dato che le stampe dei più celebri lavori, erano reperibili in tutto il continente.

In Vivaldi (peraltro autore di 46 opere teatrali) la massima espressione è probabilmente racchiusa nelle splendide raccolte dell’”Estro armonico” (1711) il cui titolo costituisce un ossimoro: è volto, infatti, ad evidenziare la ricerca del perfetto punto di equilibrio fra l’estro (pura fantasia che si scatena in totale libertà) e l’armonia (soggetta a regole connesse a stretti vincoli matematici).

“E’ come se in una sala barocca, porte e finestre si spalancassero all’improvviso e si respirasse una ventata d’aria fresca”-scrisse in proposito il musicologo Alfred Einstein. Lo studioso Michael Talbot si spinse oltre, sostenendo che “questi lavori sono la più influente raccolta di musica strumentale apparsa nell’intero diciottesimo secolo”.

Della stessa struttura appaiono i dodici concerti per violino, composti tra il 1712 e il 1713, raccolti sotto il nome de “La Stravaganza” (dedicati al nobile veneziano Vettor Delfino) ed il Concerto per flauto traverso ed archi “La Notte”. Pubblicato nel 1730, assieme a La Tempesta e Il Cardellino, è stato composto per un’orchestra di fanciulle che il “Prete Rosso” (come veniva soprannominato per il colore dei capelli) dirigeva a Venezia sin dal 1716, presso l’Ospedale della Pietà: un orfanotrofio ove le allieve più dotate ricevevano un’educazione musicale di livello assai elevato.

Questo schema generale venne indagato attentamente da Johann Sebastian

Bach (Eisenach, 1685- Lipsia 1750) il quale- prima di affrontare questo genere in proprie composizioni- studiò e trascrisse i capolavori italiani attraverso un lavoro intenso di revisione ed elaborazione. Pur accettando questo modello, non rinunciò alla propria visione del mondo, cioè alla fusione -sotto il comune denominatore del contrappunto- degli stimoli culturali provenienti dalle diverse civiltà musicali del passato e del presente. Così la forma “all’italiana” utilizzata nei concerti per violino e clavicembalo, divenne una traccia in cui inserire la forza della propria sapienza compositiva ed artistica.

Del compositore tedesco, “I Virtuosi italiani” hanno presentato il 5°concerto brandiburghese (il più famoso dei sei), composto nel periodo che trascorse a Köthen, nel ducato della Sassonia (1717-1723) e dedicato (assieme agli altri) al margravio Cristiano Ludovico di Brandeburgo-Schwedt.

Bach adottò per queste opere la dicitura in francese di “Concerts avec plusieurs instruments” (che può essere quindi considerato il titolo ufficiale dell’opera), dicitura che indicava all’epoca un tipo di struttura musicale in cui ogni strumento era affidato a un solo esecutore (senza il “raddoppio” della parte).

La denominazione attuale di “concerti brandeburghesi” è stata introdotta nel 1879 da Philippe Spitta (primo grande biografo di Bach e primo curatore ufficiale del suo catalogo), per via della loro destinazione.

Il manoscritto non fu probabilmente mai eseguito nella sede del margraviato, ma archiviato accanto ad altre 77 opere, distribuite poi tra i suoi eredi. Fu solo nel 1850 (anno del centenario della morte) che l’opera fu finalmente resa pubblica per i tipi dell’editore Peters di Lipsia. Bach era probabilmente consapevole del fatto che queste composizioni non sarebbero state eseguite, sia per la carenza dell’organico di corte, che per la particolare difficoltà della partitura: lo si suppone dalla minor cura con cui il manoscritto fu redatto.

Forse i sei concerti costituivano nelle sue intenzioni una specie di enciclopedia didattica e dimostrativa delle possibilità del genere, una sorta di “forma universale” del concerto, così come sarà per il genere della “fuga”, l’opera postuma de “L’arte della fuga” iniziata probabilmente poco dopo il 1740 (se non addirittura prima) e pubblicata nel 1751.

È opinione comune che alcune “fughe” ivi contenute siano tra le più complesse mai composte, ed in generale l’opera viene ritenuta “uno dei vertici più alti che la composizione musicale abbia mai toccato”.

Grazie alla maestria attraverso cui questi straordinari concerti sono stati eseguiti, “I Virtuosi” hanno completamente affascinato il pubblico pesarese che ha tributato loro una standing ovation, chiedendo – ed ottenendo- due bis.




11 Dicembre 2012 alle 20:37 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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