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Al Lauro Rossi di Macerata, Antonio Latella rilegge “Un tram che si chiama desiderio”

di | in: Primo Piano

Un tram che si chiama desiderio

Il regista partenopeo alle prese con il testo di Williams e il ricordo di Brando. Ma il suo è un tram di nuova generazione


MACERATA – Quando la cecità cade dagli occhi, allora non è allo sguardo che ci si può affidare per interpretare il mondo. E Antonio Latella pare saperlo, scegliendo di raccontare la sua versione di “Un tram che si chiama desiderio”, andata in scena ieri al Lauro Rossi di Macerata, a partire dal narratore, colui che, assurgendo alla funzione di coro greco, racconta fatti, dialoghi e azioni. In un ambiente scarno, dove sedie, mobili e letto sembrano essere stati depredati della loro funzione e ridotti a impalcature scheletriche, i personaggi popolano la scena come manichini immobili, cui il dottor Williams (Rosario Tedesco), significativamente dottore/analista, il Tennessee scrittore onnisciente, dà vita, introducendoli gradualmente nella storia e restituendogli movimento e parola.

Tutto sembra richiamare alla mente sensazioni scomode e invertite. Il letto, luogo di riposo e intimità, è una cornice vuota che ricorda quello usato nella “Medea” di Latella. Un ring dove l’amore è violento incontro di corpi verticali. Le superfici di appoggio sono occupate da materiale di amplificazione luminosa o sonora, esattamente quegli stessi strumenti che, per inversione, dovrebbero contornare la scena e non diventarne protagonisti. Non c’è divisione degli spazi, tutto è visibile, dal bagno alla camera da letto, dalla cucina al divano. L’unica porta è quella sul fondo, utile a definire l’entrata in casa di un nuovo personaggio. In questo ambiente violentato dall’occhio, si muovono Stanley (Vinicio Marchioni) e Stella (Elisabetta Valgoi), una giovane coppia di New Orleans la cui relazione viene turbata dall’arrivo della sorella di lei, Blanche (Laura Marinoni). Donna dalla personalità intricata e dal passato torbido, sconvolge l’equilibrio dei due e finisce per sprofondare nell’oscurità della ragione.

E a quel buio Blanche è legata sin dall’inizio, con la sua ossessione per le lampadine nude la cui luce troppo forte suole affievolire con lampioncini di carta, il suo richiamo mortifero a un passato struggente e incerto, il suo modo di amare ombroso e insopportabile, il suo voler oscurare un corpo del quale ha vergogna . A questo personaggio di sottrazione, fa eco la “fulgida” Stella, dolce e superficiale, è un surplus di energia adolescenziale. Amante della musica, continuamente alle prese con cambi d’abito, doppia nel suo essere incinta, attratta morbosamente dalla violenza di Stanley. È lui il re, come egli stesso si definisce, ordinario stallone dall’accento dell’est, ossessionato dal danaro, dedito al gioco, all’alcol e alla polemica (non è un caso la sua difficoltà nel pronunciare la parola “Napoleonico” che trasforma in “Napolemico”). È lui ad azzittire la musica e i sentimenti, è lui a trasformare ogni atto in un concentrato di virilità animalesca e tensione muscolare.

E ai fisici statuari di Stanley e dei suoi compagni di sventura, che si sfidano in sollevamenti alla sbarra-alias porta d’ingresso, fa eco una musica testosteronica che alterna i vecchi Led Zeppelin con i contemporanei System of a Down, e il rumore di quel friggitume di segnale televisivo disturbato ogni qual volta la discussione degenera in litigio.

Se Williams ambientava i contrasti nella società americana in pieno fermento all’indomani della seconda guerra mondiale, Latella sceglie di raccontare lo status sociale facendo riferimento ad un mondo culturale popolare e “merchandisingizzato”, un po’ kitsch e un po’ post pop art. E allora sulle maglie dei protagonisti campeggiano i volti delle star: da Marlon Brando, richiamo al film del ’51 di Elia Kazan, a Marylin Monroe, sino alla citazione colta del teschio di diamanti di Damien Hirst.

Nel ménage à troi di Stella, Stanley e Blanche, in cui spira forte un vento di seduzione e di erotismo, l’elemento altro che aleggia sul palco, è la verità. Nonostante i personaggi siano illuminati da riflettori posti sulla scena e le voci siano amplificate da microfoni, permane un senso di incertezza, di scarsa definibilità. Latella, assieme all’allestimento scenico scarnifica anche i concetti assoluti di vero e falso e ci lascia sospesi, incapaci di contornare una storia ambigua. Resta di Blanche, la “donna moralmente indegna del suo ruolo”, l’incapacità di definire nella sua fuga dal reale, quanto ci sia di premeditata falsità e quanto di amabile desiderio di magia. “Mi hanno detto di prendere un tram chiamato Desiderio, – dice la donna – e poi quello chiamato Cimiteri e passare sei isolati e scendere a Campi Elisi”. E i Campi Elisi, luogo di pace e di vicinanza agli dei, sono qui spazio selvaggio in cui sconfina il dramma delle menti fragili.

Latella su quel tram ci ha portati tutti. Attori bravissimi, Lauro Rossi pieno e scrosciare di applausi, stasera la replica per chi si è perso la prima.




5 Febbraio 2013 alle 21:55 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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