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Macaron, oltre la glassa l’Ulisse contemporaneo di Perinelli

di | in: Primo Piano, Recensioni

Perinelli

Per Nessunteatro, al Lauro Rossi torna LeVieDelFool con il secondo step della trilogia dell’esistenza

 

MACERATA – Ad una anno esatto di distanza dal suo debutto maceratese, Simone Perinelli giovedì scorso è tornato a calcare le scene del Teatro Lauro Rossi di Macerata con “Macaron – Causa maltempo la Rivoluzione è stata posticipata a data da definire”, seconda piece della trilogia sull’esistenza. Risponde così, per la seconda volta al richiamo dell’associazione Nessunteatro, che già l’anno scorso aveva inserito Perinelli e la sua compagnia, LeVieDelFool, all’interno del progetto artistico della rassegna No Man’s Island. Davanti alla scomposizione asintomatica dell’esistenza, allo sbriciolamento di sensi organici, i ragazzi di Nessunteatro colgono ancora una volta il necessario raccordo di un mythos del quotidiano, che raccolga, da un anno all’altro, un percorso di riflessione artistica.

Dopo “Requiem for Pinocchio”, primo step della trilogia, in cui il burattino collodiano, ridotto alla fattezza umana, vomita la sua rabbia contro un vivere che è sopravvivere, e auspica un ritorno alla natura lignea, Perinelli rovista nuovamente nelle storie patrimonio della nostra conoscenza. È la volta dell’Odissea e di Ulisse, r-esistente per eccellenza, fautore della dialettica dell’illuminismo, colui che non fu fatto per viver come bruto.

Superate le colonne d’Ercole, lasciata la sua Itaca con desiderio resistente di farvi ritorno, Ulisse è forse il simbolo più intenso di una umanità combattiva e positivista, persino testarda. È colui che sa da dove parte e ha chiaro il suo obiettivo finale. Assolve la naturale propensione umana al conoscere e percepisce se stesso come essere in divenire. Itaca, patria da cui partire e a cui tornare è la medesima eppur diversa. Così come Ulisse, esploratore di luoghi e di sentimenti, passa per Nessuno prima di poter tornare Ulisse.

Non a caso Perinelli ripesca, in apertura dello spettacolo, il ventiseiesimo canto dell’Inferno dedicato proprio alla figura di Odysseo, colui che aveva osato sfidare i limiti della conoscenza umana. Una sorta di proemio, ode alla musa, utile gancio concettuale per parlare della figura dell’artista.

Incollato, fedele alla linea, Perinelli, così come aveva fatto in Requiem for Pinocchio, torna a parlare di arte utilizzando come strumento proprio la performance teatrale, una sorta di metalinguaggio per affondare la lama nel sentire vivo della sua ferita.

Spalle al pubblico e invocando la musa-Ulisse, rivolge gli occhi al cielo, a quell’unica luce che illumina la scena dall’alto. Solo su un palco scarno, spezzetta in suggestioni il suo discorso. Una maschera di maiale veste il suo viso, a ricordarci i porci di Circe e quel po’ di zoomorfismo tratto comune degli dei dell’antichità e, contestualmente, dell’abbrutimento contemporaneo. Un primo codice seguito da un secondo, il suono dello scambio di una pallina da tennis tra due giocatori immaginari, su un campo altrettanto immaginario. Alla mente il richiamo al Blow up di Antonioni, a quell’invito a vedere quello che il mezzo non coglie.

E così il suo monologo diventa a tratti dialogo tra mito e contemporaneità. Itaca specchio di San Vito Lo Capo, Wilson marinaio di Odysseo, Odysseo alterego di Michele, Michele metà dialettica di Veronica. Al non visibile richiama l’attenzione di chi guarda, cercando un improbabile colloquio tra due forme di narrazione epica.

L’artista come Ulisse: un resistente, colui che esiste e perdura nel suo obiettivo finale. Se per Ulisse il fine è quello del fare ritorno alla sua Itaca, consapevole del tempo che si spezzetta in infiniti attimi e infiniti luoghi, per l’artista il ritorno è all’altrove, qualcosa che vada oltre il tempo, oltre l’hic et nunc e si vesta di universalità.

È in questo percorso accidentato, per stelle come per navigatori satellitari, e che va ben al di là di luoghi fisici che si consuma la natura d’artista. Il piccolo appartamento di San Vito Lo Capo da cui poter vedere il mondo e simulare, sabbia sotto i piedi, il lembo di spiaggia sottostante è un topos dove vivere la vita degli altri. Osservare l’intorno, non farne parte, costruire nell’assenza la più forte testimonianza di presenza, recintarsi nel ritorno alla vita bloccata, nell’Ulisse incatenato.

Veronica, un sorriso per la pubblicità dell’Estathè, interpreta alla lettera, il macaron, la glassa parigina dell’artista che vive nel luogo fisico la sua possibilità espressiva. L’Italia, il Paese morto e sepolto, non è luogo adatto all’arte. Approda a Parigi Veronica, per investire su se stessa.

Il secondo step di Perinelli è forse meno organico rispetto al suo Requiem for Pinocchio. L’estetica in qualche modo si ripete: la forma di dialogo-monologo, gli interessanti innesti musicali dai Pink Floyd ai Pixies passando per i Wheater Report, il Wilson-Pinocchio, la centralità della piaga dell’esistenza dell’artista, il mescolare tradizione testuale e contemporaneità alla Facebook.

In qualche modo la formula è vincente e, sebbene sia meno forte di suggestioni rispetto al volume uno della trilogia, Perinelli continua a percorrere una strada calda di tematiche e di problematiche. Nella solitudine della propria poltrona, lo spettatore interpreta l’artista nel suo vivere quotidiano, fa suo e introietta una r-esistenza al fine, tanto dolorosa quanto contemporanea. E si finisce con l’avere nostalgia, dolore per un ritorno che è più vivo che mai perché non abita il passato ma si nutre di oggi, un oggi che stenta a divenire meta.

Perinelli

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9 Novembre 2013 alle 16:42 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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