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Tra cani e lupi, a caccia d’amore: intervista a Piers Faccini

di | in: in Vetrina

 

Piers Faccini, inglese di Luton di origini italiane, è un artista a trecentosessanta gradi: pittore, musicista, produttore e, soprattutto, uno dei migliori cantautori europei, che proprio nel 2014 festeggia dieci anni di carriera. Da poche settimane è uscito il suo quinto album, “Between Dogs And Wolves”, giocato su un mirabile equilibrio tra austerità poetica e raffinata malinconia, segnato dalla sua voce intima e carezzevole. “Between Dogs And Wolves” è una raccolta di dieci ballate nelle quali risuona la solitudine in cui sono state registrate, fra le foreste di Cévennes, nel sud della Francia.

 

 

Sono passati dieci anni dal tuo esordio solista, “Leave No Trace”. Che bilancio puoi trarre di questo decennio?
La strada percorsa, in realtà, è lunga molto più di dieci anni. Ho iniziato a percorrerla molto tempo prima di registrare “Leave No Trace”. Quando è arrivata un’etichetta discografica che mi ha dato l’opportunità di registrare la mia musica, io scrivevo canzoni già da dieci anni, solo che per un motivo o per l’altro ho finito per aspettare parecchio. Ho iniziato verso i vent’anni a scrivere canzoni per conto mio, ma ai tempi non mi andava molto di salire su un palco, così dopo un po’ mi sono buttato di più sulla mia passione per la pittura. Poi, per cinque anni ho suonato in un gruppo, i Charley Marlowe, e nel 2003 ho registrato “Leave No Trace”. Un bilancio? Beh, è stato un viaggio e io continuo a camminare. Sono passati dieci anni, e le canzoni sono i ricordi che restano.
Pensando ai dischi che hai fatto, a me sembrano dieci anni decisamente in movimento…
Sì, rimanere in movimento è per me la cosa più importante. Ho sempre cercato di non ripetermi, di cambiare ad ogni album. Penso che l’immobilità sia la morte di ogni artista. Poi, certo, ognuno ha le sue ossessioni, le sue preoccupazioni, il suo modo di vedere il mondo, e queste sono cose che non si possono cambiare. Ciò che si deve fare, però, è andare sempre più nel profondo. Io ho il mio modo di scrivere, la mia poetica. E’ una direzione che rimane, ma che ogni volta tento di approfondire in modo diverso. Prima di iniziare a lavorare ad un album nuovo, provo ad impormi delle restrizioni che fanno sì che, quando inizio a scrivere, so già che sto facendo qualcosa di diverso da tutto ciò che ho fatto prima. Ma sempre conservando una direzione che è soltanto mia.
In questi dieci anni quali sono state le persone più importanti per la tua carriera?

Ho avuto la fortuna di incontrare e lavorare con molte persone meravigliose in questi dieci anni, la lista è davvero lunga. E ovviamente ci sono mia moglie e i miei figli, che sono la mia fonte di ispirazione.
Sognavi di fare il musicista fin da piccolo o avevi altri progetti per te?
Da ragazzino ero molto innamorato della pittura, e ricordo che verso i dodici anni dicevo sempre ai miei genitori che volevo diventare un pittore. Poi, naturalmente, crescendo in Inghilterra negli anni Ottanta, la musica e la cultura ad essa legata sono diventate molto importanti per me. Fu inevitabile iniziare a suonare e cantare con gli amici, anche se inizialmente lo facevamo un po’ per gioco. Non so però se ho davvero sognato di diventare musicista. In generale, non sono uno che sogna molto. Tuttora sono sempre un po’ sorpreso ogni volta che faccio un disco, che parto per una tournee, che rilascio interviste. Mi sento fortunato. Sono contento di avere ancora l’opportunità di fare questo lavoro e l’apprezzamento che ricevo e il fatto che io e te possiamo avere questa conversazione sono cose che mi riempiono di soddisfazione.
Tuo fratello invece è uno scrittore, vero?
Siamo tre fratelli, in realtà. Scriviamo tutti. Mio fratello Ben scrive romanzi, che sono stati tradotti in alcuni Paesi ma purtroppo non ancora in Italia. Io scrivo musica. Poi c’è mio fratello Dom Gabrielli che scrive poesia. La mia spiegazione, un po’ romantica forse, è che siamo figli di emigrati – italiani, irlandesi, ebrei russi. Essendo senza patria, abbiamo solo parole, solo le lettere dell’alfabeto per trovare un senso e un’identità. Siamo obbligati, non avendo Paese, a trovare la verità nelle parole.
Riguardo gli anni Ottanta, c’è stata una band in particolare che ha influenzato in modo decisivo la tua scelta di fare musica?
All’epoca, i miei gusti seguivano due strade diverse. Da una parte ero molto innamorato della musica dei cantautori nordamericani degli anni Sessanta come Neil Young, Joni Mitchell, Leonard Cohen. Allo stesso tempo mi piacevano i gruppi degli anni Ottanta. Soprattutto gli Smiths. Ero un loro grande fan, andai ad un loro concerto e fu molto importante, e la nostra prima band, quando eravamo ragazzini, faceva proprio cover degli Smiths. Poi un momento fondamentale per me è stata la scoperta del country-blues afroamericano. Nomi come Skip James, Son House, Robert Johnson, hanno rappresentato un momento incredibile della storia della musica che fortunatamente è stato registrato… Per me furono una folgorazione e mi spinsero nella direzione che ancora oggi continuo a seguire.
Non credo di sbagliare dicendo che il nome assorbito maggiormente dalla tua musica sia quello di Leonard Cohen…
Credo che Leonard Cohen sia il più grande cantautore della sua generazione e a lui, come un allievo al suo maestro, mi sento molto più vicino che ad altri.
Immagino che da inglese hai subito l’influenza di Nick Drake e John Martyn o di chitarristi come Bert Jansch…

Stranamente questi musicisti sono arrivati più tardi. Da teenager non conoscevo Nick Drake e John Martyn, però quando ho iniziato a scrivere le mie canzoni e ho iniziato ad intraprendere questa direzione influenzata dal blues del Mississipi, ho iniziato a vedere che più vicino a me c’erano delle cose fantastiche, quindi a questo punto scoprii gli artisti che hai detto ma anche altri come Martin Carthy, Davey Graham, Richard Thompson, John Renbourn. Quella è stata una generazione fantastica, che rende la musica di oggi  davvero povera, al confronto.
PIERS FACCINI BETWEEN DOGS AND WOLVESL’espressione francese “entre chien et loup”, tradotta in inglese, ha dato titolo al tuo ultimo album. Cos’è questo essere tra cane e lupo, un modo di vivere, uno stato mentale, o qualcosa in più?
E’ un’espressione che io trovo molto poetica, anche se per la maggioranza dei francesi credo abbia un significato molto banale. Per loro vuol dire soltanto il momento – l’alba o il crepuscolo – che non è giorno e non è notte, un momento di passaggio. E’ un momento che non puoi mai prendere, mai definire. Trovo molto bello che tutto l’album racconti questo momento che è il più poetico della giornata, il momento senza definizione. La poesia è quello che non puoi definire e che non ha spiegazioni. Non puoi capire veramente perché una poesia ti tocchi. Nell’album collego all’espressione “entre chien et loup” dieci canzoni che sono dieci sguardi da angolazioni diverse sullo stesso soggetto. L’album ha a che fare con tutto ciò che riguarda il cercare l’amore, con il perderlo, il trovarlo, con il desiderio, l’amicizia, la nostalgia, con le storie che finiscono, che muoiono e che nascono. Volevo scrivere delle canzoni attorno al sentimento dell’“andare a caccia d’amore”, che alla fine è ciò che cerchiamo di fare per il tramite dell’amante e quello che cerchiamo quando siamo alla ricerca di una verità spirituale. Volevo, ovviamente, rimanere distante dall’idea più “sentimentale” del parlare d’amore, mi interessava molto di più fare un esame poetico dell’identità dell’amore.
In questo senso, “Between Dogs And Wolves” può essere considerato un concept album?
Sì, esattamente. Le dieci canzoni sono come altrettanti capitoli di un’unica novella. L’album inizia con la canzone più disperata, Black Rose, che racchiude l’idea di un uomo che dice “non posso vivere senza di te”, l’amore per lui è una rosa nera, una cosa bellissima che, allo stesso tempo, lo svuota, come un buco nero. Che lo consuma e non lo fa uscire dalla disperazione. Alla fine del disco invece, se immaginiamo che il protagonista sia la stesa persona, in Like Water Like Stone, c’è un uomo che capisce che tutto ciò che ha vissuto e tutto ciò che ha cercato alla fine è qui, ora, nel momento in cui camminando sul lungomare prende un sasso, lo butta in mare e guardando le onde prodotte nell’acqua ha l’impressione che è tutto ok, che è così che deve essere. Sono due momenti completamente opposti, vediamo una persona così disperata per l’idea di una realtà che non riesce a trovare o a definire e dall’altra parte una persona pacificata, che non vuole più provare a guidare la nave, perché sa che la nave può seguire la corrente. Questo è come ho concepito l’album. Ho voluto rappresentare quello che succede tra i due estremi.

Forse è dagli arrangiamenti dei nuovi brani che trapela di più quel tuo essere in movimento di cui parlavamo prima. Come mai in “Between Dogs And Wolves” hai scelto di esprimerti in modo più essenziale, per esempio con una sezione ritmica ridotta all’osso, in pratica con il solo basso di Jules Bikoko?
Perché, al quinto album, volevo fare qualcosa di diverso, qualcosa che lo rendesse unico rispetto agli altri. C’è in questa scelta anche un’influenza del pittore che è in me. Per un anno e mezzo ho dipinto, per esempio, guardando fuori dalla stessa finestra in momenti diversi della giornata, dalla mia finestra a Londra. Amo questo senso di restrizione. A volte “less is more” e a me piace lavorare con tale povertà di mezzi. Con il nuovo album volevo ridurre tutte le possibilità, non volevo percussioni, non volevo batteria, volevo invece lavorare con qualcosa di lento, molto intimo e molto intenso. Era importante per me scegliere delle precise tonalità, dei precisi colori, e mettere da parte tutti gli altri. C’è una riduzione delle possibilità e nella riduzione, paradossalmente, puoi ottenere qualcosa di più da ciò che resta. Tutto l’album è stato fatto in questo modo e il concetto viene ripreso anche nell’impostazione visiva e grafica dell’art-work. Ho usato silhouette, carta tagliata a mano, c’è una serie di segni che indicano un mondo a parte, ed è il mondo con cui volevo vestire queste canzoni.
E’ vero che sei un amante della canzone napoletana e, più in generale, della musica popolare italiana?
Vero. Amo moltissimo la musica popolare del sud Italia. Ho collaborato con una band incredibile chiamata Canzoniere Grecanico Salentino. Sono un fanatico delle registrazioni dei classici della canzone napoletana fatte da Roberto Murolo negli anni Sessanta. Ho avuto anche la fortuna di cantare con il salentino Uccio Aloisi. In più, forse lo sai, ho prodotto un bravissimo artista napoletano, Gnut.




23 Marzo 2014 alle 15:56 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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