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Il Carnevale di Venezia

di | in: Primo Piano

15 FEB 2010 – Nel week-end siamo andati a Venezia, mia moglie ed io. Sono stato chiamato per approfondire l’interesse biunivoco ad una consulenza professionale e non potevo dire di no: il committente è un giovane amico imprenditore, veneziano come me.

Lui ha la fortuna, pur avendo casa anche in laguna, di trattenersi quando lo desidera in uno degli appartamenti in affitto ricavati all’interno di  una splendida dimora settecentesca di campagna ,  una di quelle  che l’antica nobiltà della Serenissima si costruiva per il relax e che oggi si scorgono, fascinosissime, percorrendo i venti chilometri della statale napoleonica che da Mestre raggiunge Treviso, il cosidetto ‘Terraglio’.

La dimora è chiamata  ‘villa del Conte XXXXX’, l’ultimo discendente del quale, pure lui conte, certo, ancor oggi  racconta dei fasti della casata che arrivò ad avere un doge. Anche il nobile divide il suo tempo fra il palazzotto sul Canal in città e l’antico casino di caccia in campagna dove si diletta a seguire i lavori di ristrutturazione dell’ ampia dependance che sorge nel parco della villa e che poi affitterà…

Assieme a Caterina, mia moglie, ho fatto il viaggio da Santomartire a Venezia con la macchina che ci ha lasciato nostro figlio nel carpire la mia con la scusa che ne ha bisogno per accompagnare a scuola i bambini, ormai grandicelli. Con mossa repentina, mi ha sottratto un comodissimo SUV costringendomi all’uso della sua spyder a due posti secchi:

“Così ringiovanisci, papà!” mi ha detto mettendo in moto la mia vettura ed allontanandosi senza attender risposte: lui abita non vicino, abita in Belgio, abita.

Non voglio raccontare di esserci restato male, nell’intimo mi piace guidare la sua duecento cavalli sovralimentata con la velocità autolimitata, mi piacciono gli sguardi furtivi che qualcuno mi lancia (anche qualcuna), mi piace guidare disteso e sentire la reazione immediata di tutti quei  purosangue al premere sull’accelleratore, le immissioni in curva repentine e giù a schiacciare in uscita chè è una trazione posteriore…il problema vero, purtroppo quello che ci mette di fronte all’età senza remissioni (dico ci perché lo condivido totalmente con il coniuge, il problema) è uscire dalla vettura. E’ talmente bassa che, nello scendere, mi conviene prima metter fuori ambedue le gambe e poi, in qualche maniera, issarmi in piedi all’esterno cercando di non sbattere la testa sulla capote metallica quando è chiusa per poi raggiungere la portiera opposta e tirar fuori la mia donna.

Il mio amico m’aveva dato appuntamento per le diciassette di sabato scorso non a Venezia ma proprio in villa, mi aveva chiesto la puntualità, mi aveva preavvertito che sarebbe stato in compagnia del conte proprietario della villa a cui era legato da amicizia e mi aveva giurato che non mi avrebbe rubato più di due ore.

Così, alle diciassette di sabato, puntualissimo come solo io lo sono, spegnevo il motore parcheggiando sul fronte interno della dimora nobiliare, a non più di dieci metri dall’ospite che mi stava attendendo sulla ghiaia finissima e bianca della spianata carrabile: era in compagnia di un signore altissimo, che manteneva lunghi sul collo i capelli bianchi, eretto il portamento del busto , la mano sinistra sul fianco e la gamba corrispondente leggermente più avanzata dell’altra mentre  la mano destra, discosta dal corpo, poggiava sul pomo argenteo di un bastone da passeggio che, si vedeva benissimo, non gli serviva certo a supporto del deambulare ma solo a soddisfare un vezzo: capii, lo so sono arguto, che trattavasi del conte in persona.

Il quale, appena mi fui issato fuori dalla – ormai mia – spyder, sorridendo fra l’ironico e l’amichevole, mi disse ad alta voce in italiano, dandomi del voi  e senza assolutamente tentare di nascondere, anzi!, la forte cadenza dialettale veneziana:

“ Oh, caro, avete ben sbattuto le  corna sul tettuccio, eh! “ aggiungendo (mentre mi ritrovavo  con un dolore accecante ed un sorriso cretino a cercare di dissimularlo) “ perché avete le corna, sapete? Le abbiamo tutti, noi uomini sposati!” mentre, così dicendo, già si era portato accanto alla macchina dal lato del passeggero e si chinava nel baciamano a Caterina da cui si era fatto sentire volutamente. Si scambiarono un sorriso:

“ Benvenuta nella mia casa, signora, benvenuta” le disse e, se avesse avuto un cappello piumato, lo avrebbe sicuramente fatto roteare nel gesto canonico.

Era il conte, non avevo dubbi.

“Sono il conte XXXXX” disse infatti riavvicinandosi a me e stringendomi forte la mano “ Benvenuto anche a voi! Passato il dolore?”

“ Si, grazie conte” gli risposi trovandomi a ricambiargli il saluto con un semi-inchino.

“ Non si fa così” mi riprese lui subito “l’inchino si fa verso le signore, verso i signori basta il gesto circolare del braccio ed un accenno del capo…così!”

Cercai d’ imitarlo, imbarazzatissimo, tanto che mi disse alzando un sopracciglio: “ Lasciate perdere, caro!”

Fu il mio amico a salvarmi salutandomi con un abbraccio plebeo, dicendo:

“Tutti dentro, che parliamo dell’opportunità!”

Entrammo in villa.

 

In una saletta attigua al salone delle danze, totalmente riempito da lunghi tavoli chiaramente addobbati per un pranzo di nozze, avevano preparato un tavolo , antico, per la nostra riunione. Sopra il tavolo avevano steso un arazzo, antico, e sopra l’arazzo una tovaglietta bianca a tombolo, deliziosa ed antica. Le sedie dove ci accomodammo erano degli scrannetti veneziani , leggiadri, nessun dubbio sull’età settecentesca, laccati di verde acquamarina con dipinti, come solo a Venezia si sapeva dipingere, a deliziosi fiorellini multicolori. Sul tavolo, in corrispondenza di ogni scrannetto c’era un bicchiere a gambo alto dorato e uno a gambo basso, ambedue con il contenitore di vetro rosso soffiato: antichi di Murano, ovviamente; per non parlare dei piattini di porcellana policroma a copiare le cineserie e ai piccoli tovagliolini ricamati (certamente di Burano, certamente, come la tovaglietta) e alla forchettina d’argento…

Arrivò un cameriere vestito di nero, camicia candida e gemelli, a versarci del prosecco per poi immediatamente servirci una fettina di dolce.

“Attenti ai bicchieri” disse il conte sempre sorridendo con nonchalance “ me ne sono rimasti solo quarantasei, sono preziosi, introvabili. Intanto salute, sentite la bontà di questa  pasticceria casalinga, prego…Voi non  toccate il bicchiere per paura di romperlo o perché siete astemio?” disse poi rivolto a me e, senza attendere risposta, aggiunse “ Non provo simpatia per gli astemi”.

Allora, alzato il calice verso di lui, bevetti e lui con me.

Una ventina di minuti dopo, sparecchiata la tavola, iniziammo la riunione.

Parlò solo il mio amico: disse che c’era l’opportunità di acquisire attraverso il conte, continuativamente nel tempo, mobili di alto pregio veneziani, originali antichi e che, il Conte e lui, volevano conoscere la mia disponibilità ad elaborare qualche idea creativa e particolarmente innovativa per tradurre in business l’opportunità senza ricadere necessariamente nel settore classico della vendita d’antiquariato, anzi rifuggendovi.

Mi meravigliarono quando mi dissero che avevano saputo (ma non dissero da chi) come fosse divenuto di successo un business su mobili di design artistico raffinato  che avevo fatto implementare recentemente negli Emirati ad un committente fiorentino a cui avevo prestato consulenza.

Dunque volevano saperne di più della cosa e se pensassi di poter bissare…

Specificai sul successo, poi dissi la mia su quello che mi avevano evidenziato come loro obiettivo, a ruota libera esternai un paio di considerazioni che potevano fungere da base per uno  studio d’idea innovativa, arrivai a correlare  con un pensiero nascente che aggettivai come temerario e assolutamente embrionale, ipotetico.

Passarono due ore. Caterina doveva ormai conoscere a memoria tutte le trabeazioni del soffitto, il mio amico aveva palesato controconsiderazioni alle mie così ampliando quel brain-storming preventivo.

Il Conte XXXXX era stato silenzioso ma, senza darlo a vedere più di tanto, estremamente attento.

“ Credo che , per oggi, possiamo soprassedere. Credo che la riunione sia stata fattiva. Credo…” cominciai a dire per mettere fine all’incontro.

“ Certo, lo credo anch’io” disse il Conte XXXXX “ Adesso fermiamoci e prendiamoci una settimana, dieci giorni di riflessione. Poi ci risentiremo, chiameremo noi. Ora, ditemi, voi…” continuò rivolto a me “ …dove alloggiate stanotte? E domani cosa fate?”

“ Ho casa qui a Mestre” gli risposi “ Dormiamo e poi , domani, ritorniamo a Santomartire…”

“ I miei avi commerciavano con le Marche, avevano rapporti con Fermo” disse lui, improvvisamente perso in qualche suo ricordo , poi, come risvegliatosi disse “ Bene, domani è domenica. Sono a pregarvi  di non partire subito: Vi passerei a prendere a Mestre nella tarda mattinata per andare tutti assieme nella mia casa di Venezia a vedere il carnevale!”

“ Oh, sì!” quasi gridò Caterina prima che io rifiutassi e così la cosa fu decisa.

Quando ce ne andammo verso Mestre, non potemmo non ammirare, proprio lì vicino, la stupenda villa che fu del Principe Fustemberg. Dissi a mia moglie che, alle medie, ero stato a scuola con Egon quando veniva in Italia e avevo conosciuto anche Ira.


Il giorno seguente, il Conte XXXXX passò a prenderci a Mestre che mezzogiorno era già passato. Era in macchina col mio amico. La macchina era guidata dal cameriere che ci aveva servito il dolce : aveva cambiato divisa.

La macchina era una Rolls bianca : presumibilmente quella immessa nei  pacchetti “festa di matrimonio”  che venivano celebrati nella villa con l’uso anche  della chiesetta nobiliare tutta affrescata, Scuola del Tiepolo.

Rimasi a bocca aperta.

Ma non per la macchina quanto perché, nel salirvi con Caterina, notai come il Conte fosse totalmente mascherato, meglio,  vestito – dal cappello tricornuto, alle scarpe con tacco alto e fibbia, alla camicia a voiles ricamate finissimamente, alle calze al ginocchio di seta bianca , allo spadino al fianco – proprio come i nobili di duecentocinquant’anni fa si addobbavano a carnevale.

E il bastoncino pieno di swarowsky che teneva nella destra reggeva una splendida maschera di Pantalone dietro cui il Conte si mimetizzava.

“ Conte!” esclamai “Complimenti…”

“ E’ per nascondere le corna, carissimo, per nascondere le corna!” rispose. Lo sentii di buonumore.

“ Andiamo” intimò all’autista. Andammo a Venezia. A Venezia.

Ogni volta che ci vado mi commuovo.  Ecco l’idea innovativa, dissi a me stesso: devo fondare il business che mi chiedono il conte ed il mio amico sull’emozionalità, sull’emozionalità!

Per arrivare al palazzetto del Conte XXXXX affacciato sul Canal  all’altezza di San Marcuola, ci vollero più di tre ore: quello camminava pianissimo, pavoneggiandosi, continuamente aspergendosi di profumo. Lo fermavano tutti per farsi fotografare con lui, turisti ed indigeni e molti degli indigeni lo conoscevano:

“ Siete splendido, Conte XXXXX” gli dicevano in dialetto e lui, in dialetto vero parlava e rispondeva.  Il vero dialetto veneziano è un canto, è dolcissimo, sinfonico, molto bello a sentirsi.

Quando arrivammo a casa sua (alla faccia! pensai, che casa!) erano passate le quattro del pomeriggio e Caterina ed io, per non parlare del mio amico, avevamo fame.

“ Entriamo, vi offro una bevanda calda!” ci disse il Conte suonando il campanello. Non era il massimo. Ci aprì una signora anziana che il Conte non presentò; servitù, pensai e pensai giusto, era l’unica domestica della grande casa totalmente vuota:

“ Ester” le disse il Conte  entrando in casa “ prepara il solito, per cortesia”

 Lei lo guardò, così mascherato com’era, un’ombra di velatissima tristezza negli occhi, fece un cenno deferente col capo e scomparve  dietro una porta.

“ Venite, vi mostro la casa” disse il Conte a Caterina e a me, parlando del palazzotto.

Lo seguimmo, senza il mio amico che si sedette in uno dei salottini del primo piano.

Caterina ed io non potevamo fermare lo sguardo: a terra, la graniglia meravigliosa tirata a cera, al soffitto i cassettoni dorati dipinti all’interno, lo stemma del casato in ogni stanza , le porte doppie con i sovrapporte dipinti, le tende doppie e triple  a velare le bifore gotiche di pietra d’Istria.

Ma quello che di più attirava lo sguardo erano i mobili e le suppellettili d’arredamento, i lampadari, i tappeti ed i quadri ed i libri e…

Tanti pezzi, splendidi. Splendidi. Caterina ed io seguivamo il Conte, stanza dopo stanza, piano dopo piano ed i piani erano quattro prima degli appartamenti della servitù in colombaia…

Il Conte aprì la porta di una piccola camera da letto: le pareti erano affrescate, il baldacchino leggiadro rendeva il letto non incombente, alle pareti c’era un ritratto a grandezza naturale di una dama, una gran dama dal naso acquilino, occhi chiarissimi e freddi…

“ Questa è la stanza. Li ho scoperti qui, involontariamente, se avessi saputo non li avrei imbarazzati entrando…”

Caterina ed io ci guardammo, anche noi con un imbarazzo incipiente.

“ Mia moglie, l’ho scoperta a letto col figlio del fornaio … E’ una maledizione di famiglia…Molti dei miei avi, come me…Il divorzio, una volta non c’era…per fortuna, oggi… Beh, continuiamo la visita”

Continuammo a girare per casa sua, seguendolo, standolo a sentire mentre ci illustrava l’arredamento: era pieno di ogni bendiddio, quel posto, pieno come un uovo.

Suonò una campanella lontana.

“ E’ pronto” disse il Conte “ scendiamo. Ester me la serve caldissima, la bevanda, sempre con i Baicoli, i biscotti che preferisco” e, avviandosi, declamò: ‘No ghe xe al mondo, no, più bon biscoto, più lisiero, dolce, benedeto e san , da tociar ne ‘a cicara e nel goto, del baicolo nostro venexian!’

Mentre scendevamo dai piani alti, Caterina mi sussurrò :

“ Non ho mai visto tanti mobili e tutti così belli!”

Prendemmo il carcadè che aveva preparato Ester religiosamente, in silenzio. Il Conte, il mio amico, Caterina ed io. Buonissimo. Alla nostra tavola sedette anche lei,  Ester: a Caterina e a me fece piacere.

“ Conte” dissi quando finimmo di bere “ Grazie per la giornata che ci ha fatto trascorrere, grazie. Non possiamo restare, per tornare a Santomartire sono altre quattro ore e mezzo di viaggio più il tempo di arrivare a riprendere la macchina a Mestre…”

“ A Piazzale Roma c’è il mio autista con la Rolls…” disse il Conte “…vi sta aspettando…”

Ci salutammo tutti ma lui, il Conte XXXXX, volle accompagnarci personalmente alla porta mentre il mio amico si tratteneva di sopra.

Giunti nell’androne, decisi di dirglielo:

“ Conte “ iniziai “ credo di aver capito. Li venderemo come meritano, i suoi mobili, ai giusti acquirenti,  solo a quelli che potranno capirli, che dimostreranno di sentire l’emozione della civiltà di Venezia che è conservata al loro interno!”

Lui non riuscì a rispondere subito e, comunque, poi riuscì  a dirmi solo:

“Sì”

Mentre uscivo, mi girai improvvisamente a guardarlo e lui, altrettanto sveltamente si coprì il volto con la maschera di Pantalone. Ma io lo vidi, che piangeva.


Franco De Anna




17 Febbraio 2010 alle 1:34 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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