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-Incoraggiare gli anziani a fare volontariato

-Il sistema immunitario nella malattia di Alzheimer

-Combattere il dolore cronico

 

Incoraggiare gli anziani a fare volontariato

 

A cura della dott.ssa Roberta Bevilacqua, Psicologa  dell’INRCA di Ancona, Centro di ricerca sugli Aspetti psicosociali dell’invecchiamento

 
5/17/2010 – I benefici che il volontariato porta nella popolazione anziana continuano ad essere supportati evidenze scientifiche. “I volontari anziani hanno migliorato il loro stato di salute fisico e psicologico” ha detto la dr.ssa Fengyan Tang, docente presso la University of Pittsburgh School of Social Work, che ha condotto studi sui volontari anziani.
“Essi riportano un aumento della sensazione di benessere e una maggior senso di soddisfazione. Inoltre, il rischio di mortalità risulta essere ridotto, se comparato ai soggetti anziani non volontari.” Alcune settimane fa, sono stati riportati i risultati riguardanti uno studio iniziale su un programma di volontariato gestito da anziani all’interno di scuole pubbliche. I risultati hanno mostrato che, attraverso la loro attività di volontariato, gli anziani potevano ridurre il rischio di declino cognitivo. Al momento, è possibile constatare anche che non tutte le attività di volontariato generano gli stessi benefici.
Infatti, in alcuni studi recenti pubblicati nella rivista The Gerontologist, la dr.ssa Tang ha condotto una ricerca con 207 volontari di età media di 72 anni, i quali dedicavano circa sei ore alla settimana ad un programma di gestione volontaria di servizi quali preparazione di pasti o assistenza nell’utilizzo del computer.
I risultati dimostrano quanto sia importante l’organizzazione dell’attività nel raggiungimento di benefici per i volontari. Infatti, gli anziani riportano di aver ottenuto un maggiore “beneficio nella sfera socio-emotiva – la sensazione di aver reso un importante contributo, sentimenti di aumentato benessere – soprattutto quando i programmi hanno previsto un maggiore supporto ai volontari dal punto di vista dell’organizzazione.” Che cosa si intende per supporto organizzativo ai volontari?
La possibilità di conciliare i lavori richiesti per l’attività di volontariato con gli interessi personali degli anziani, l’offerta di un training tale che permetta ai volontari di sperimentare un senso di familiarità con l’ambiente, lo staff, il compito e le possibili sfide che si presentano, sono attività che possono agevolare e supportare i volontari, nello svolgimento della loro attività.
Inoltre, anche l’opportunità di rendere il volontariato più conveniente per gli anziani, attraverso l’offerta di trasporti o parcheggi o piccoli incentivi, il riconoscimento del servizio svolto attraverso incontri o consegna di attestati, possono essere rientrare nell’accezione di supporto organizzativo.   
“Il supporto organizzativo è più importante delle caratteristiche individuali del volontario, nel favorire una maggiore durata nella partecipazione all’attività e un maggiore beneficio per il volontario stesso”, sostiene la dr.ssa Tang.
Prendano nota di questi suggerimenti sia gli anziani e le famiglie in cerca di opportunità per dedicarsi ad aiutare gli altri, ma soprattutto i programmi di volontariato che hanno l’intento di reclutare e trattenere tra le loro fila i volontari anziani.
 
 
Fonte: “Encouraging older volunteers”, by Paula Span, April 26, 2010, New York Times.


Il sistema immunitario nella malattia di Alzheimer

A cura della dott.ssa Moira Lucarelli, Medico Geriatra in servizio presso il Punto di Primo Intervento dell’Ospedale INRCA di Ancona


4/28/2010 –
La malattia di Alzheimer rappresenta senza dubbio la forma più frequente di demenza nell’anziano: i dati epidemiologici indicano che ne è affetto circa il 30% della popolazione ultraottantacinquenne. È inoltre una delle patologie maggiormente debilitanti dell’età geriatrica, caratterizzata, dal punto di vista clinico, da un deterioramento progressivo delle capacità cognitive a cui si associano più o meno precocemente turbe del comportamento.
La ricerca in tale settore ha condotto all’individuazione di una serie di alterazioni anatomiche e funzionali che sono alla  base dello sviluppo di tale patologia; numerosi elementi indicano che l’accumulo progressivo, a livello cerebrale, di una proteina chiamata beta-amiloide, rappresenti il “primum movens” della malattia o comunque ne rappresenti l’evento centrale. Nel tempo tutti i neurotrasmettitori sono coinvolti a causa di una progressiva e irreversibile perdita di cellule nervose del cervello; tra tutti, i neuroni cosiddetti “colinergici” sembrano comunque essere particolarmente affetti e costituiscono il bersaglio dei trattamenti sostitutivi.
Una più approfondita conoscenza della fisiopatologia molecolare del morbo di Alzheimer (ancora oggetto di numerose sperimentazioni) lascia intravedere la possibilità di ulteriori possibilità terapeutiche e diagnostiche.
Una nuova ricerca promossa dall’Unione Europea suggerisce che le cellule immunitarie del cervello potrebbero essere la causa della perdita di neuroni associata alla malattia di Alzheimer.
Con l’invecchiamento si modifica, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, il sistema immune (immunosenescenza). L’immunosenescenza non va però vista semplicemente come una perdita progressiva delle funzioni immunitarie, ma piuttosto come un processo dinamico di adattamento, caratterizzato dalla perdita di alcune funzioni e dal potenziamento di altre.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature Neuroscience e potrebbero condurre alla scoperta di nuovi trattamenti per molte malattie neurodegenerative.
Le cellule immunitarie del cervello (cellule della microglia) sono in grado di degradare le placche beta-amiloidi associate alla malattia di Alzheimer. La microglia è anche nota per distruggere le cellule cerebrali degli animali affetti da altre malattie neurodegenerative, come ad esempio il morbo di Parkinson. Nel corso dell’esperimento, è risultato chiaro che le cellule della microglia si raccolgono intorno alle cellule cerebrali prima e non dopo la loro distruzione. Questi elementi suggeriscono che sono proprio le reazioni infiammatorie indotte dalla microglia a condurre i neuroni alla progressiva degradazione e alla morte.
Man mano che la malattia progredisce, le cellule sotto stress produrrebbero un messaggero chimico che attrae le cellule della microglia provocando reazioni infiammatorie che portano all’eliminazione anche deineuroni
L’individuazione dei messaggeri responsabili della comunicazione tra i neuroni e le cellule della microglia potrebbe portare allo sviluppo di nuovi agenti che, contrastando tale comunicazione, rallenterebbero la morte cerebrale e la progressione della malattia.


Combattere il dolore cronico

 

A cura della dott.ssa Moira Lucarelli, Medico Geriatra in servizio presso il Punto di Primo Intervento dell’Ospedale INRCA di Ancona

 

5/6/2010 – Il dolore, in accordo con la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “è un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a un danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di tale danno”.
È composto da una parte puramente percettiva (la nocicezione), che permette la ricezione ed il trasporto al sistema nervoso centrale di stimoli potenzialmente lesivi per l’organismo, e da una parte esperienziale (quindi del tutto privata, la vera e propria esperienza del dolore), che è lo stato psichico collegato alla percezione di una sensazione spiacevole. L’esperienza del dolore è quindi determinata dalla dimensione affettiva e cognitiva, dalle esperienze passate e da fattori socio-culturali. Il dolore rappresenta un sistema di difesa, quando rappresenta un segnale d’allarme per una lesione tessutale, essenziale per evitare un danno e diventa patologico quando si automantiene, perdendo il significato iniziale e diventando a sua volta una malattia. Il dolore “cronico” si associa a profonde modificazioni della personalità e a un peggioramento della qualità di vita.
Il dolore può paradossalmente distinguersi in utile e inutile; il primo rappresenta un campanello d’allarme e ci fa capire che siamo di fronte a un potenziale problema più o meno grave. Tutti i dolori che non rappresentano un vero e proprio allarme possono essere considerati “inutili” e necessitano di un controllo; tali dolori sono rappresentati da tutti i tipi di dolore cronico, di qualunque natura essi siano, sia benigni che maligni.
Il dolore cronico presente in molte patologie dell’età adulta, come le malattie degenerative, neurologiche, oncologiche, specie nelle fasi avanzate e terminali di malattia, assume caratteristiche di dolore globale, legato a sensazioni, psicologiche e sociali, e rappresenta un determinante dello stile di vita.
In letteratura non esistono molti dati sull’incidenza del dolore cronico, ma si può affermare che la prevalenza del dolore cronico non oncologico nella popolazione generale è circa dell’11%. In Italia i dati epidemiologici dimostrano che l’età avanzata comporta un rischio crescente di essere colpiti da più malattie contemporaneamente; secondo i dati ISTAT nella classe di età superiore a 65 anni aumenta progressivamente la percentuale colpita da almeno due o tre malattie croniche. L’aumento del rischio di comorbidità comporta un netto aumento del fabbisogno assistenziale, soprattutto in quei soggetti affetti da dolore cronico. Per tale motivo la valutazione degli aspetti legati al trattamento e al riconoscimento del dolore cronico rappresenta un cardine imprescindibile della promozione della salute, intesa come miglior livello di qualità di vita.
Negli ambulatori dei medici di famiglia fino ad 1 paziente su 3 potrebbe soffrire di dolore cronico. Questo uno dei risultati dell’indagine “Il comportamento prescrittivo dei medici di medicina generale”, promossa dalla Società Italiana di Medicina Generale (SIMG). Lo studio ha coinvolto 500 medici italiani, per un totale di 789.284 pazienti. Ha dimostrato che circa il 27% degli assistiti soffre di una malattia importante associata a dolore cronico: artrosi (20,45%), artrite reumatoide (0,85%) o tumori (6,07%). Il dolore quando non è un episodio isolato, ma perdura nel tempo, diventa esso stesso una malattia e come tale deve essere curato e trattato.
Le persone colpite spesso si sentono escluse ed abbandonate. Un valido sostegno è rappresentato da alcune associazioni il cui intento è quello di diventare un punto di riferimento per chi soffre di dolore cronico, dando vita ad una serie di iniziative finalizzate a informare i cittadini sulle possibilità di cura e gestione della sofferenza inutile, anche attraverso internet. Gli utenti possono così trovare informazioni utili e possono contattare per un confronto e dialogo continuo sia gli altri pazienti che alcuni specialisti. L’associazione “Vivere senza dolore”, ad esempio, è stata fondata da pazienti per pazienti affetti da dolore cronico con lo scopo di dare voce a questa fetta di popolazione.
Per informazioni e confronti contattare il sito www.viveresenzadolore.it
A cura della dott.ssa Moira Lucarelli – tratto dal sito www.giobbe.net il portale per l’invecchiamento dell’INRCA www.inrca.it 



24 Maggio 2010 alle 23:11 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

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