Benvenuto e Buona Navigazione, sono le ore 09:48 di Dom 28 Apr 2024

Rufus Wainwright “All Days Are Nights: Songs For Lulu”

di | in: in Vetrina, Recensioni
Rufus Wainwright “All Days Are Nights: Songs For Lulu”


Etichetta: Decca / Universal
Brani: Who Are You New York? / Sad With What I Have / Martha / Give Me What I Want and Give It to Me Now! / True Loves / Sonnet 43 / Sonnet 20 / Sonnet 10 / The Dream / What Would I Ever Do With a Rose? / Les Feux D’Artifice T’Appellent / Zebulon


Il fatto che prima ancora che questo disco uscisse il web fosse pieno di articoli che lo recensivano non depone a favore della classe giornalistica, che a quanto pare sacrifica sempre più spesso la qualità del proprio punto di vista in nome di una corsa a primeggiare, non tanto in termini di obiettività e capacità critica, quanto in tempistica, primeggiare nel mero atto di arrivare primi. I suddetti articoli non depongono proprio per niente a favore dei cosiddetti critici soprattutto perché, nella gran parte, bollavano “All Days Are Nights” come noioso e monocorde, niente a che vedere con la grandeur tipica di Rufus, giudizio questo a cui è facile arrivare ascoltando l’album in modo frettoloso. Ma, ammesso e non concesso affatto che esistano dischi che meritano un ascolto rapido prima di essere recensiti, “All Days Are Nights” non fa certo parte di questa presunta cerchia. Il sesto album in studio del musicista americano fa parte invece di quel ristrettissimo club di album d’autore che, dal “Blood On The Tracks” di Bob Dylan al “The Boatman’s Call” di Nick Cave all’”Avenue B” di Iggy Pop, mettono a nudo l’autore in modo imbarazzante per chi ascolta e vivisezionano l’anima sublimandone la sofferenza.


A gennaio di quest’anno Rufus Wainwright ha perso sua madre, la cantante folk Kate McGarrigle, dopo una lunga battaglia contro il cancro. “All Days Are Nights: Songs For Lulu”, il nuovo album di inediti, il primo da tre anni in qua, non poteva che essere pieno di dolore, eppure non c’è minuto tra i quarantasette totali del disco che non brilli di una bellezza sempre più rara nel globo-mercato musicale di oggi, antica e pesante, per niente facile, una bellezza in grado di liberare, nell’ascoltatore che ha la voglia e l’ardire di entrarci dentro, sensazioni di luminosa rinascita.


Musicista straripante di talento e quanto mai a suo agio nell’arte di esagerare, qui Rufus tocca il punto di non ritorno del minimalismo classico. Via il barocco e l’opera, via l’opulenza e l’eccesso, si rifugia nell’estremo opposto: solo piano e voce per accompagnare melodie che si incastonano in una New York trapassata da decenni, quando il musical era il più grande spettacolo della città e in strada ci si feriva ancora davvero d’amore. E così l’iniziale Who Are You New York?, con il suo elencare posti e angoli di Manhattan, può suonare inutile e fastidiosa solo se non si è disposti ad immergersi in quell’atmosfera di (finta) melassa, all’ombra dei grattacieli, a passo svelto sull’asfalto bollente. Pezzo peraltro già proposto dal vivo negli ultimi due anni, Who Are You New York? ha un enorme cuore di ghiaccio pronto a sciogliersi incastonato nel suo centro e apre il disco in bianco e nero. Martha, pezzo disarmante nella sua sincerità, buca il velo che separa l’arte dalla vita e lo fa con la forza del candore; il suo testo composto dalle parole di un messaggio lasciato sulla segreteria telefonica della sorella Martha, anche lei musicista («Martha, it’s your brother calling/time to go up north and see mother/things are harder for her now/and neither of us is really that much older than each other anymore/Martha, it’s your brother calling/have you had a chance to see father?/wondering how ‘s he doing and/there’s not much time for us to really be that angry at each other anymore/it’s your brother calling, Martha/please call me back»), rende perfettamente idea dell’intimismo con cui Rufus infonde il nuovo disco. E’ un genere di intimismo già frequentato in passato dal musicista, un sottopercorso nel suo canzoniere – pensiamo a In A Graveyard in “Poses”, a Pretty Things in “Want One”, a The Art Teacher e This Love Affair in “Want Two”, forse a Not Ready To Love in “Release The Stars” – ma mai in modo così morboso.
Give Me What I Want And Give It To Me Now! è il momento più movimentato, dedicato ai detrattori dell’arte wainwrightiana, What Would I Ever Do With a Rose? il momento più monotono. In mezzo ai due estremi ci sono True Loves e The Dream, forse i pezzi più cantabili della raccolta, e soprattutto ci sono i tre ambiziosi tentativi di Rufus di mettere in musica la poesia di Shakespeare: tre sonetti, il 43 (When Most I Wink), il 20 (A Woman’s Face) e il 10 (Shame), resi ballate indolenti, fragili, e – specialmente A Woman’s Face – sorprendenti.


Forse è un bene che un album di così alto impatto emotivo non sia stato appesantito da arrangiamenti orchestrali, nella minimalità del piano-voce c’è tutto ciò che serve, e le emozioni sono crude e autentiche. Anche perché sia piano che voce sanno il fatto loro. Non li scopriamo ora, eppure in “All Days Are Nights” la voce tiene ovunque in lungo e in largo, mentre il piano fa del tradizionalismo (virtuoso) la migliore terapia possibile per il dolore.
La chiusura di Zebulon è mozzafiato e inchioda all’ascolto prima con versi strettamente legati alle vicende personali dell’artista («my mother’s in the hospital/my sister’s at the opera/I’m in love but let’s not talk about it/there’s so much to tell you») poi con una riflessione profonda in cui la voce di Rufus si innalza, liberata e sicura, anziché inabissarsi nel buio («freedom’s apparently all I need/but who’s ever been free in this world/who has never had to bleed in this world?»). La stessa nota di piano ripetuta ossessivamente è la via alla catarsi scelta da un musicista còlto in un momento di difficoltà dal quale lascia germogliare fiori e melodie che non possono esaurirsi nel breve, che trovano il loro posto dentro chi ascolta dopo una dedizione lunga e attenta, ormai divenuta ahimé una dedizione d’altri tempi. E un disco così classico, così bicromatico, così bisognoso di ascolto e cura, nell’epoca della fruizione ultrarapida suona davvero come un disco d’epoca. Che, beninteso, non può che essere un grosso complimento.




3 Maggio 2010 alle 22:24 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

Ricerca personalizzata