Benvenuto e Buona Navigazione, sono le ore 16:54 di Dom 28 Apr 2024

I migliori dischi del 2010

di | in: Cultura e Spettacoli, Foto e Vignette, Play List


Un anno decisamente colmo di grandi dischi quello che sta per concludersi. Tra tutti ne abbiamo scelti tre, e li abbiamo messi in un ideale podio: al primo posto “Brothers” dei Black Keys, al secondo “Here’s To Taking It Easy” dei Phosphorescent, al terzo “High Violet” dei National. Questi i dischi che ci hanno emozionato di più in assoluto. Travolgenti e geniali nella loro rivisitazione moderna del classicismo rock-blues di matrice seventies, i Black Keys hanno realizzato un disco che gira dal primo all’ultimo secondo, al ritmo di funk (Sinister Kid), soul (Never Gonna Give You Up) e tanto tanto blues (Next Girl, Howlin’ For You). I Phosphorescent di Matthew Houck hanno saputo cavalcare un’ispirazione mai così florida, scrivendo e registrando alcuni brani (It’s Hard To Be Humble, We’ll Be Here Soon, The Mermaid Parade) che rappresentano senza ombra di dubbio la quintessenza dell’alt-folk di oggi. I National sul podio, infine, semplicemente non potevano non esserci: i ragazzi di Brooklyn sono uno dei gruppi del decennio e “High Violet” non ha fatto altro che confermarlo.


Sotto il podio?
Rufus Wainwright con “All Days Are Nights” ha scritto un toccante commiato da sua madre (la cantante folk Kate McGarrigle) morta dopo una lunga malattia, rinunciando allo sfarzo che spesso ha contraddistinto le sue produzioni e affidando il suo dolore al minimalismo di voce e piano. Gli acclamatissimi Arcade Fire erano attesi al varco del terzo album, pronti ad essere impallinati al minimo errore, ed invece “The Suburbs” è corroborante, energico, pieno di forza rigenerante per l’intero scenario rock mondiale. I connazionali Broken Social Scene hanno dato alle stampe l’ennesimo disco di spessore, così come i sempreverdi Tindersticks, ormai da quasi vent’anni maestri del noir-rock. E come non ricordare Joanna Newsom che ha pubblicato un album addirittura triplo, in cui la sua arpa distilla emozioni cristalline come mai aveva saputo fare finora: “Have One On Me”, pur non essendo finito sul nostro podio, è consigliatissimo, così come gli album degli artisti appena citati.
Alla spicciolata ricordiamo anche “The Courage of Others” dei Midlake, “Sea of Cowards” dei Dead Weather, “Lisbon” dei Walkmen, “Together” dei New Pornographers e “Mondo Cane”, il progetto italiano di Mike Patton.


Delusioni?
Ci sono state anche quelle. Di sicuro gli album di Antony and the Johnsons, degli Eels, dei Blonde Redhead, dei Band of Horses e dei Belle and Sebastian sono risultati al di sotto delle attese. Antony in particolare, dopo la prova assoluta di “The Crying Light”, non ne ha saputo ripetere la magia e con “Swanlights”, suo quarto lavoro sulla lunga distanza, è inciampato nel primo passo falso della carriera. Gli Eels di Mark Oliver Everett sembravano aver detto tutto con il mastodontico doppio “Blinking Lights and Other Revelations” del 2005 e tutti i dischi venuti dopo, compreso il recente “Tomorrow Morning”, non riescono ad emanciparsi dal fastidioso senso di già sentito.


Per chi li avesse persi e volesse saperne di più, dei dischi-podio ripubblichiamo di seguito le recensioni integrali.


1.   The Black Keys “Brothers”

Etichetta: V2
Brani: Everlasting Light / Next Girl / Tighten Up / Howlin’ For You / She’s Long Gone / Black Mud / The Only One / Too Afraid To Love You / Ten Cent Pistol /Sinister Kid / The Go Getter / I’m Not The One / Unknown Brother / Never Gonna Give You Up / These Days


Se avete messo da parte degli spiccioli da spendere al negozio di dischi e di dischi potete comprarne uno solo perché gli spiccioli son pochi, allora eccolo qua: il disco che dovete comprare è “Brothers”, l’ultima fatica firmata Black Keys.    
I ragazzi di Akron sono scatenati. Nell’ultimo anno hanno fatto uscire il pazzesco album a nome Blakroc, progetto a metà strada tra blues e hip-hop old style che ospitava, tra gli altri, RZA e Mos Def, il disco solista di Dan Auerbach e il disco di Patrick Carney con la side-band Drummer, composta da cinque batteristi dell’Ohio alle prese con diversi strumenti. Ora tornano alla sigla madre e quello che consegnano alle nostre orecchie è davvero un meraviglioso sentire.
Nel lavoro precedente, il bestseller “Attack & Release”, il duo Auerbach/Carney aveva già trovato la formula magica per entrare nelle pagine da ricordare del rock recente, ma con “Brothers” è riuscito a superarsi, arricchendo la ricetta di casa con riferimenti soul, r’n’b e funk sparsi ovunque a piene mani. La novità è subito chiara, se mi passate il gioco di parole: così black i Black Keys non erano mai stati e l’incontro tra la classicità hard blues e i bollori sexy di scuola Motown è una miscela esplosiva.           
I Black Keys sembrano aver appena parcheggiato di fianco allo scalcagnato playground di un ghetto nero d’America e, scesi dal loro rock-furgone, sembrano attaccare la spina e suonare per qualche decina di spostati e perdigiorno in acconciatura afro accorsi a muovere il culo a ridosso degli ampli.
La scaletta mantiene un livello altissimo per cinquantacinque minuti. Voce da urlatore blues filtrata dall’eco, chitarrone mastodontico e batteria pestante: lo schema di base è sempre lo stesso e semplificare così la musica dei Black Keys sarebbe oltremodo ingeneroso se non si annotassero le soluzioni diverse, l’inventiva, il gusto per la trovata più fulminante, mai per quella più ovvia, che accompagnano ognuno dei quindici brani. Auerbach e Carney devono aver imparato due o tre cosucce da Danger Mouse, che ha prodotto “Attack & Release“ e che su “Brothers” si è limitato a manipolare la sola Tighten Up, non a caso la traccia più fighetta. La chitarra di Auerbach gira e rigira su se stessa in riff che suonano vecchi di almeno quarant’anni eppure ogni volta sorprendenti, arrotolati su note di piano spiazzanti, distorsioni a nastro, drumming fatto di stomp e frustate. Amplessi soul si rincorrono per tutto il disco, con il fantasma di Jimi Hendrix che fa capolino qua e là a dare la sua benedizione.
L’uno-due iniziale lascia sbalorditi. Everlasting Light, con il falsetto di Auerbach, il fuzz che scalda subito la temperatura, la ritmica martellante, e Next Girl, con strofe ancheggianti e sexy e un ritornello monumentale, sono il salvacondotto per il piacere di “Brothers”. Howlin’ For You è un talkin’ blues saturo e appiccicoso che si apre nel finale in un gioco di prestigio con una tastiera straniante, She’s Long Gone un blues disossato, Black Mud un interludio strumentale tremendamente melmoso.
Il falsetto ritorna nell’abbandono amoroso e torrido di The Only One, altro potenziale singolo dopo Tighten Up. Il country western iniettato di tequila di Too Afraid To Love You, il funk di Sinister Kid, il trip californiano annebbiato dal fumo di The Go Getter, il commovente quadro familiare di Unknown Brother sono altri tasselli di un quadro fatto di sudore e sete.
L’amore la fa da padrone nei testi, specie nella sua gradazione più rude, come in Next Girl («my next girl will be nothing like my ex girl/I made mistakes back then I’ll never do it again») e nel manifesto di maleducazione sentimentale I’m Not The One («all these years I’m just trying to warn you/you’d do good to move on/no it won’t hurt me none/cause I’m not the one/no I’m not the one/you wanted it all but I’ll give you none»). E in questo acquitrino di cuori corazzati le due tracce finali sembrano carezze. Prima c’è la cover dell’anno, Never Gonna Give You Up, un pezzo del 1968 firmato Jerry Butler, che i Black Keys ricompongono spalmandoci sopra due o tre strati ben compatti di saturazione e con cui annientano ogni possibile residua resistenza. In chiusura, These Days, un ballata in cui si inseriscono elementi di memoria più che esatti («the little house on Ellis Drive/is where I felt most alive/the oak tree covered that old Ford/I miss it Lord, I miss it Lord») e disillusioni letteralmente accecanti («wasted times and broken dreams/violent colors so obscene/it’s all I see these days»), ideale seguito delle pagine più morbide degli Stones prima e dei Black Crowes poi. Il fatto che questo pezzo – e insieme ad esso altri nove quindicesimi dell’album – sia stato registrato ai Muscle Shoals Sound, leggendari studi dell’Alabama dove sono passati gli Stones, gli Allman Brothers, Wilson Pickett, appare logico. In quella solitudine Auerbach e Carney hanno registrato un disco ad altissima godibilità, travolgente e a tratti irresistibile, che tradisce il loro immenso amore per il vintage e per un Paese che continuano a cantare riaggiornando la vecchia lingua dei bluesman e che si candida ad essere uno dei migliori titoli alla fine di questo strano 2010, apatico per i primi mesi ed ora, improvvisamente, diventato scoppiettante.


2.   Phosphorescent “Here’s To Taking It Easy”

Etichetta: Dead Oceans
Brani: It’s Hard To Be Humble (When You’re From Alabama) / Nothing Was Stolen (Love Me Foolishly) / We’ll Be Here Soon / The Mermaid Parade / I Don’t Care If There’s A Cursing / Tell Me Baby (Have You Had Enough) / Hej, Me I’m Light / Heaven, Sittin’ Down / Los Angeles


Ascolto il nuovo disco dei Phosphorescent da quasi tre mesi e solo ora ne scrivo perché trattasi di un lavoro da metabolizzare molto lentamente, uno di quei dischi che, se ti emoziona la wave, con tutta probabilità troverai ammorbante ma, se sono l’America e i suoi spazi – l’accezione topografica in questo caso è la meno importante, la geografia di riferimento è quella dell’anima – a setacciare il fondo della tua vita, ti cullerà per molte notti, con nenie e sogni, miscele e fumi di solitudini larghe e preziose come un continente.
La materia musicale è tutt’altro che innovativa, tra folk di frontiera e alt-country, ma Matthew Houck ha il pregio di saperla modellare stillandoci ispirazione, originalità e soprattutto un pathos rari in un genere uguale a se stesso da anni. In “Here’s To Taking It Easy” si assiste all’evoluzione del suono Phosphorescent, al suo farsi corposo, e forse fin troppo classico, senza peraltro deragliare del tutto dai binari di uno sciamanesimo che Houck sembra portare nelle corde vocali da sempre. Come finestre aperte sugli incanti nascosti dietro ogni distesa d’America, le nove tracce funzionano proprio grazie ad un’interpretazione ogni volta impeccabile.
It’s Hard To Be Humble, la traccia d’apertura, è una sorpresa, non (solo) per il testo venato di ironia, ma per il coloratissimo arrangiamento in cui sulla chitarra elettrica e sul piano si stratifica uno spericolato diluvio di fiati che fa della band una fanfara alle prese con un tramonto ubriaco dell’Alabama. Nothing Was Stolen e We’ll Be Here Soon sono quadretti sentimentali che fanno del country una questione di impressionismo emozionale: piccoli tocchi per materializzare allusioni e silenzi, speranze e brindisi, lontananze e riavvicinamenti. Quadretti sentimentali nel modo più squisito che si possa immaginare. I Don’t Care If There’s A Cursing è il momento Wilco che mancava al precedente repertorio Phosphorescent, con un testo anaforico e trascinante («I don’t care if you like me/I don’t care if you don’t/I don’t care if you fight me/I don’t care if you won’t/I don’t care if there’s lightening/I don’t care if there’s smoke»). Hej, Me I’m Light è il mantra che ti aspetti dal santone che è in Matthew, con un impasto vocale ipnotico e una ritmica in crescendo che strania e trascina in un qualche luogo della mente ancora da esplorare. Los Angeles è il viaggio elettrico in una città che ha il sapore amaro della morte, nove minuti in cui Neil Young e Will Oldham se ne vanno in giro a braccetto, come animali notturni dall’andatura poco stabile. E la città degli angeli torna come vertice sanguinante nel triangolo finale dell’amore di The Mermaid Parade, il pezzo migliore di “Here’s To Taking It Easy”, tra il Messico e Coney Island. The Mermaid Parade, che varrebbe da sola l’acquisto del disco, è il genere di ballata che, se si è sensibili a certe argomentazioni del cuore, è capace di struggerti e stenderti: tre accordi che si ripetono per tutta una canzone in cui l’amore in frantumi si autoripercorre a ritroso fino ad un’imprecazione che buca tutto ciò che è possibile bucare, in una giornata segnata dalle lacrime e dalle sirene («and then our two years of marriage/in two short weeks somehow just slipped away/and I know all about your new man/your new older, old man and I heard that he’s married/ah you be careful Amanda/and yeah I found a new friend too/and yeah she’s pretty and small/but god damn it Amanda, oh god damn it all»). Non serve aggiungere altro, no?


3.   The National “High Violet”

Etichetta: 4AD
Brani: Terrible Love / Sorrow / Anyone’s Ghost / Little Faith / Afraid Of Anyone / Bloodbuzz Ohio / Lemonworld / Runaway / Conversation 16 / England / Vanderlyle Crybaby Geeks


La cosa che paventavo di più era che i National si trasformassero in un gruppo da stadio. Come i Coldplay, per dire, che mi hanno emozionato giusto il tempo dell’esordio e poi si sono messi a fare gli U2, come se si sentisse il bisogno di altri U2. “High Violet” mi ha tranquillizzato. Dopo il successo di “Boxer”, con Fake Empire che addirittura era stata scelta da Obama tra le canzoni della campagna presidenziale, il rischio che i ragazzi di Cincinnati (ma trapiantati a Brooklyn) si lasciassero andare a soluzioni di facile appeal, alle tirate sotto sotto paracule à la Arcade Fire o a un disco iperprodotto, era reale. “High Violet” prosegue nel solco scavato da “Boxer”, senza grosse rivoluzioni, le canzoni sono belle, i testi sempre al di sopra della media pop, la batteria di Bryan Devendorf grande protagonista insieme al baritono di Matt Berninger. Quel suono che ha fatto a suo modo la storia degli anni zero è qui riproposto senza essere stravolto, con qualche aggiustamento di tiro all’insegna dell’equilibrio.
Pur non raggiungendo nel complesso la bellezza di “Sad Songs For Dirty Lovers” e “Alligator”, dischi contenenti autentici gioielli come Cardinal Song, Lucky You, Karen, Sons And Daughters Of Soho Riots, “High Violet” arricchisce di nuovi interessanti capitoli il discorso amoroso che Berninger, tra maleducazioni sentimentali e cuori in frantumi, continua a portare avanti con l’autorevolezza dell’ousider di talento. Stavolta già i titoli la dicono lunga: Terrible Love, Sorrow, Anyone’s Ghost, Afraid Of Everyone lasciano pochi spazi al dubbio, qui è il rovescio della vita che viene messo in musica.
Terrible Love è il pezzo d’apertura che, sempre sul punto di esplodere, resta sul filo di una dolcissima tensione, facendosi manifesto circonvoluto, ipnotico e vagamente marziale, con le chitarre dei fratelli Dessner registrate sporche a creare un contrasto sublime con le armonie di voce e organo. Sorrow è un buco nero degno dei primi Tindersticks, con una quartina iniziale («sorrow found me when I was young/sorrow waited, sorrow won/sorrow they put me on the pill/it’s in my honey, it’s in my milk») che non si fa scrupoli ad inabissarsi nelle gradazioni più cupe della scala dell’umore, con il valore aggiunto del fraseggio irregolare e straniante del rullante di Devendorf. In Little Faith ricompare uno di quei ritornelli capaci di incunearsi nell’anima e restarci per giorni, colpa di una melodia killer e di uno o due versi che giocano con un accennato ermetismo e si fanno cantare come non se ne potesse fare a meno. Stavolta sono gli appena sussurrati «we’ll play nuns versus priests/until somebody wins» a vincere le mie difese.
Anyone’s Ghost, Afraid Of Everyone e Bloodbuzz Ohio si affidano a tinte wave per far presa sin dal primo ascolto e ci riescono pur mantenendo un’identità precisa e assonante a tutto il resto. Specie Bloodbuzz Ohio, perfetto esempio di come i National siano capaci, nell’incrocio tra una sezione ritmica febbrile e sentimenti da solitudine metropolitana dichiarati ai quattro venti, di riaggiornare puntualmente l’ormai riconoscibilissima ricetta di casa, risultando sempre sorprendenti. Provate a dimenticare questi versi dopo aver ascoltato il pezzo anche solo un paio di volte: «I was carried to Ohio in a swarm of bees/I’ll never marry but Ohio don’t remember me». Inutile, non ci riuscirete.
Il disco va avanti adagio, lasciando con Lemonworld tre minuti di pausa per tirare il fiato. Pezzo leggero come una limonata. Poi i toni si riinabissano. Runaway è una ballad di sofferta indolenza, forse apice dell’intera raccolta, con versi di un’esattezza matematica che si stagliano perentori nell’aria a sostenere una domanda («what makes you think I’m enjoyin’ being led to the flood?») destinata a restare sospesa come se fosse scritta da volute di fumo cattivo che faticano a disperdersi. Trattasi di un pezzo così velato e nascosto, un capolavoro talmente minuscolo, che non si deve commettere l’errore di perderne la bellezza tutta, magari skippandolo dopo il primo ascolto non entusiasmante. Poi ci sono il racconto psicotico di Conversation 16, dove i ritmi tornano febbrili, e England, unico momento debole di “High Violet”, con l’organo a farla da padrona e, alla fine dei quasi sei minuti, a risultare un filo noioso . Chiude la ballata Vanderlyle Crybaby Geeks, isola di pacificazione, inno di sottile rinascita, orizzonte senza ombre. E’ con un richiamo alla natura e col verso «I’ll explain everything to the geeks» che i National sigillano un album che li conferma nuovi classici contemporanei, autori di meraviglie incapaci di emanciparsi dalla dimensione intima di un salotto di casa, di una sala prove o di un club per mille persone. Tutto tranne che uno stadio, sembrano dire Berninger e soci. I Coldplay continueranno a registrare pathos da arena, tenendo salvo lo scettro. Io insisto a coccolarmi i National nel salotto di casa. Matt Berninger continua a guadagnarsi sul campo il vicinato dei fidi Nick Cave e Stuart Staples nella mia collezione di dischi.






28 Dicembre 2010 alle 13:38 | Scrivi all'autore | stampa stampa | |

Ricerca personalizzata